Berlusconi non è acqua potabile e l’esploratrice Casellati non fa il miracolo di scoprire la formula magica per depurarla e combinare un governo tra berlusconiani e pentastellati. Finisce in un nulla di fatto il primo giro, ce ne sarà un secondo e, a meno di clamorose sorprese, probabilmente già domani la presidente del senato tornerà sui suoi passi salendo al Quirinale per certificare il fallimento di una missione limitata a misurare la distanza tra centrodestra e 5Stelle.

Si prende tempo ma lo stallo si rende ancor più evidente, dopo questo mezzo giro di ricognizione andato a vuoto. Si ipotizza un ultimo tentativo affidato al presidente della camera, Fico, per verificare se un tempo supplementare, per sondare il Pd, può avere miglior fortuna per la formazione di un governo. Magari con un presidente del consiglio diverso da Di Maio.

La paralisi dei partiti è la spia del terremoto del 4 di marzo, ben presente al presidente Mattarella che aveva già chiarito di voler trovare tra i partiti vincitori un’alleanza di governo. Più che insistere, spingendo l’esploratrice a trovare un accordo tra questi stessi interlocutori, il capo dello stato non può fare. Ma Salvini manda i capigruppo e diserta i colloqui, mentre Di Maio, come fossimo in una perenne campagna elettorale, parla di assunzioni di forze di polizia, di fine del business degli immigrati e di lotta alla corruzione. Forse cercando un accordo in extremis con la Lega.

Un minuto dopo la scelta di Mattarella, il fuoco di fila dei pentastellati non lascia dubbi: il forno berlusconiano non esiste.

Ora non resta che verificare cosa accade nel rissoso condominio del Nazareno, ancora orfano di una discussione vera sulla batosta elettorale. Dopo aver elencato una pallida agenda sociale, che neppure nomina il disastro dell’occupazione e del mercato del lavoro prodotto dal suo governo, il Pd ripete di non volersi contaminare in nessun modo con i 5Stelle. Un matrimonio Pd-5Stelle è negato dal coro renziano anche se, sulla carta, la formula di un’alleanza di centrosinistra potrebbe resuscitare solo con l’incontro tra renzismo e grillismo, due forme di rottamazione politica e culturale per molti aspetti concorrenti.

Del resto il ritorno al proporzionale rievoca i tempi della prima repubblica, quando l’approdo al centrosinistra e ai governi di coalizione in Italia si concretizzò con il patto tra democristiani e socialisti. E con rapporti di forza simili a oggi, tra un partito di maggioranza relativa e uno del 15 per cento.

Un governo alla fine dovrà esserci, come è altrettanto evidente che quel che alla fine nascerà da questa palude post elettorale presto si ritroverà dentro la prossima campagna elettorale per le elezioni europee. Un terreno di scontro politico sul futuro dell’Europa in un contesto, secondo Macron, tutt’altro che stabilizzato, definito perfino dal presidente francese come una situazione sull’orlo di una guerra civile alimentata da nazionalismi e questione migratoria.

Si rischia di trovare dietro l’angolo un governo balneare figlio di tutti e di nessuno. E di andare verso un altro voto politico, magari conforme a quello del 4 marzo, con un Pd ancora penalizzato e rapporti di forza praticamente riconfermati.

Trainato da Renzi di sconfitta in sconfitta, questo Pd non si capisce cosa vuole essere, come intende cambiare per non condannarsi al confino nei quartieri alti della società, e a perdere nelle periferie. Banalmente nella crisi italiana si specchia l’assenza di una sinistra, o di un centrosinistra di alternativa al sistema che ci ha portato fin qui.

Il Pd con il renzismo è arrivato al capolinea. Non trovare nemmeno il modo di discutere della sconfitta, non avere consapevolezza dell’urgenza di una necessaria discontinuità, è tra le cause, non ultima, dello stallo. Il minimo della pena sarebbe convocare un’assemblea nazionale e discutere apertamente il che fare.