Presentato in anteprima all’edizione dello scorso anno del Festival di Cannes, dove nella sezione sezione Un Certain Regard si è aggiudicato il premio speciale della giuria, La tartaruga rossa rappresenta un qualcosa di davvero unico nel mondo della cinematografia contemporanea. Fin dal processo che ha portato alla nascita di questo esperimento visivo in forma animata, è chiaro che ci troviamo davanti per certi versi a un eccezione, il risultato di un concretizzarsi di una serie di eventi e incontri favorevoli avvenuti durante l’ultimo decennio. Nel 2004 il regista ed animatore olandese Michaël Dudok de Wit incontra al festival di Hiroshima Isao Takahata, suo grande ammiratore e che con lo Studio Ghibli ha anche distribuito nel Sol Levante i suoi cortometraggi, The Monk and the Fish del 1994 e Father and Daughter del 2000.

Proprio Takahata, con la collaborazione degli inseparabili compagni di vita Toshio Suzuki e Hayao Miyazaki, preme affinché de Wit possa un giorno compiere il salto di qualità e realizzare un lungometraggio. Nel 2007 l’artista europeo comincia a lavorare ad un soggetto coadiuvato dalla sceneggiatrice francese Pascale Ferran, gli avvenimenti che portano lo Studio Ghibli a sospendere, o almeno a congelare a tempo indeterminato praticamente tutte le attività creative, apre ai tre giapponesi una nuova strada. Si crea così una coproduzione internazionale fra Prima Linea Productions, Why Not, Wild Bunch e appunto lo Studio Ghibli nella persona di Toshio Suzuki, con Takahata che funge da produttore artistico. Il lavoro procede e per un periodo lo stesso de Wit si trasferisce a Koganei, zona della capitale nipponica nel quartier generale dello studio giapponese dove rifinisce sceneggiatura e storyboard. Il risultato è un vero e proprio gioiello e, come si diceva in apertura, qualcosa di davvero unico nel panorama animato contemporaneo.

La storia è quella di un uomo sopravvissuto ad un naufragio, capace di mettersi in salvo su un’isola deserta dove, dopo un primo periodo di disperazione, cerca di costruire una zattera e di lasciare l’isola. Nella totale solitudine ed assenza di civiltà in cui deve inevitabilmente adattarsi, il naufrago trova il modo di entrare in contatto con tutte le altre forme di vita che popolano l’isola. Non solo gli animali, i piccoli granchi a cui sono dedicate le scenette più comiche del film e la tartaruga rossa gigante del titolo, ma anche il mare, il cielo, la sabbia, gli alberi, insomma l’uomo riesce a (ri)conquistare un senso panico del vivere, con tutti gli alti e i bassi che questa riscoperta comporta. Ma l’opera di de Wit non ci presenta od auspica un ritorno allo stato selvaggio e naturale dell’uomo, il salto che il lungometraggio compie è ben più prodigioso e ricco.

Con delle scelte estetiche quasi da film sperimentale, in tutti gli ottanta minuti de La tartaruga rossa non viene proferita neanche una parola e con un uso dei colori, che ricorda quello dei migliori dipinti di Cezanne o di Paul Klee, il film possiede un tono da realismo magico o, come è stato fatto notare da più parti, un’estetica da graphic novel che le dona un andamento ciclico tipico di alcune fiabe della tradizione orale. I cicli dell’esistenza, il tempo e lo sfociare malinconico ma inesorabile della vita nella morte erano del resto anche al centro del toccante Father and Daughter.

La-tortue-rouge-2016-The-Red-Turtle-Michael-Dudok-de-Wit-04

Se nel cortometraggio però i colori si muovevano fra il nero, il grigio e il marrone, in La tartaruga rossa la tavolozza usata è ampia e lascia sbalorditi per le tonalità pastello che inondano lo schermo. E proprio grazie all’uso sapiente di questi colori, la vita del paesaggio dell’isola e di tutto ciò che viene mostrato nel film diventano allora i veri protagonisti dell’opera. Se la sabbia e le onde sono anch’esse parte fondamentale della vita, è l’umano ciò che viene messo fra parentesi ed è questo forse uno degli elementi che più avvicinano il lavoro di de Wit a La principessa splendente di Takahata ed all’estetica Ghibli più in generale. La tartaruga rossa sarà nelle sale italiane per tre giorni, il 27, 28 e 29 marzo, distribuito da BiM, proprio per la specificità di essere un lungometraggio senza dialoghi e che basa e costruisce la sua estetica sull’uso delle immagini e dei colori per raccontare la storia, il film andrebbe visto sul grande schermo e con un audio che renda giustizia al meraviglioso lavoro fatto sul sonoro. Il suono della risacca, delle onde, il frusciare degli alberi e tutti gli altri rumori che «animano» e compongono la vita dell’isola, anche quando questa diventa aggressiva e distruttrice, sono infatti un altro degli elementi di maggiore impatto di questa pellicola.