Il Museo Pasolini di Ascanio Celestini – passato negli spazi dell’Auditorium a Romaeuropa – è l’Italia – l’Italia del ‘900 e dopo, dal fascismo alla continuità dello stato, l’Italia del consumismo, dell’emarginazione, della strategia della tensione. Ascanio Celestini snocciola i dati biografici della vita di Pasolini, nato nell’anno zero dell’era fascista, come se fosse una voce di enciclopedia, e poi ne esce a raggiera reinventandoli a modo suo. Ripercorre la denuncia di Petrolio in una fulminante sintesi di multi vocalità teatrale, racconta il mondo delle borgate, delle baracche, dell’emarginazione non come lo descrive Pasolini ma come, acceso da Pasolini, lo reimmagina lui (anche con visioni surreali che paiono Fellini e una memoria che evoca don Roberto Sardelli).

A SOSTEGNO di tutto questo sta la insopprimibile tensione fra l’ideologia del consumismo e l’inconsumabilità della poesia. In tutte le due ore dello spettacolo, lo chiama sempre «il poeta»: è il Pasolini delle Ceneri di Gramsci il protagonista di questa narrazione, il poeta che ascoltando la lingua friulana del suo paese riscoprire quel potere della parola che regge anche tutto il lavoro di un affabulatore come Ascanio Celestini. C’è una porta al centro della scena, e questa porta non si apre mai. È come il diaframma fra quello che sappiamo e quello che non si può sapere, lo «io so ma non ho le prove» di Pasolini, una storia dove il visibile è già teatro, già finzione e il compito dell’artista è cercare di svelarla. Anche per questo, restano soprattutto impresse due immagini. Una è quella dell’innocenza del comunismo italiano: un’innocenza piegata, stirata, messa nel cassetto (un’immagine che forse Celestini deriva da una delle storie che ha raccontato nel suo Radio Clandestina – che peraltro finiva proprio con la voce registrata di Pasolini), in attesa di tornare a dispiegarsi), un’innocenza smarrita dopo la repressione sovietica a Budapest, ma non del tutto uccisa: sta ancora là, e da quel cassetto esce solo a sprazzi per poi tornare a chiudersi, restando viva soprattutto nel desiderio creativo del poeta. L’altra è il segno vuoto lasciato da un quadro rimosso su una parete quasi nascosta nella casa del narratore.

È UN’ASSENZA, un significante vuoto che si presta ad ogni manipolazione, ma è anche una pagina bianca, il luogo del possibile, dell’immaginazione: un simbolo conteso, come conteso rimane il significato plurimo e molteplice di Pier Paolo Pasolini. Il racconto culmina con l’assassinio del poeta (1975, «anno LIII dell’Era Fascista» dice Celestini), descritto anche qui con tutti i dettagli di storia e di cronaca al loro posto, e quindi con la sua inconclusa verità, un assassinio commesso non da un singolo ma da un’epoca intera. Il senso di tutto il racconto sta nella frase ossessivamente ripetuta detta da un poliziotto e citata dall’Espresso nella cronaca del’assassinio. Sorpreso dalla normalità della biancheria trovata addosso al corpo, il poliziotto dice «uno come lui me lo immaginavo con le mutandine di seta». A Valle Giulia nel ’68, Pasolini stava con la polizia; ma la polizia, e chi la istruisce, non è mai stata con lui. Celestini ripete questa frase finché non lascia il segno. La strategia messa in piedi da quello che Pasolini chiamava il Palazzo per annullare la resistenza della poesia consiste nel distogliere l’attenzione dall’immaterialità delle parole per sporcare, la materialità del corpo di chi le ha dette. Tornare a dirle, ascoltarle, inventarle di nuovo è il compito di chi prova a resistere.