Sentire il grisou di Georges Didi-Huberman, recentemente pubblicato in italiano da Orthotes grazie all’attento lavoro di cura di Francesco Fogliotti (pp. 152, euro 16), è il risultato del montaggio di due conferenze tenute nel 2013, montaggio da cui ha preso forma un saggio che rientra a pieno titolo nella riflessione del filosofo francese che, a partire da Immagini malgrado tutto, è impegnata a mettere in luce la funzione politica delle immagini.
Per comprendere cosa le immagini possono è però necessario fare un passo di lato e sottolineare che, per Didi-Huberman, si tratta di rizomi densi, percorsi e agitati da assenze che ritornano, assenze che, ricolme dei vuoti della memoria e del desiderio, dissestano la linearità del tempo. Le immagini sono infestate da spettri, producendo vortici fanno sì che il passato irrompa nel presente e nel futuro per illuminarli e che il presente e il futuro agiscano sul passato per farlo bruciare, per far brillare i suoi sintomi rimossi. In breve, lo statuto delle immagini è hauntologico.

ED È PROPRIO QUESTO STATUTO a consegnare le immagini al loro compito politico che in Sentire il grisou si articola in domande oggi tragicamente familiari: «Come veder venire la catastrofe?», come dotarsi di uno «sguardo-tempo» che ci permetta di rendere visibile il futuro, conoscibile il presente e leggibile il passato?
Per Didi-Huberman, la catastrofe è «incolore e inodore» come il grisou, quel gas che ha mietuto – e continua a mietere – innumerevoli vittime nelle gallerie sotterranee dell’estrattivismo capitalista.

Per contrapporsi a tutto questo, l’autore intraprende uno scavo alternativo nei cunicoli della sua memoria personale e di quella collettiva per poter «rimontare il tempo» e «rimontare i tempi», «come se, per comprendere il nostro passato» («per onorare la memoria dei senza nome», direbbe Benjamin) «dovessimo essere in grado di riconfigurare il presente per mezzo di un rimontaggio anacronistico» («passare a contrappelo la storia», proseguirebbe il filosofo berlinese), «fondando sul Già-Stato tutta l’attenzione per il Sarà» («accendere nel passato la favilla della speranza», concluderebbe l’autore di Tesi di filosofia della storia).

QUESTO INTENSO LAVORO di montaggio politico che fa vibrare le immagini, che le rende «destabilizzanti costellazioni dialettiche», è restituito in questo libro dalla voce straziante di Rocío Marquez, che fa da cassa di risonanza all’occupazione del 2012 del sito minerario di Santa Cruz del Sil (Spagna), e dallo sguardo tragico che percorre La rabbia di Pasolini (1962). In entrambi i casi, il montaggio è un rimontaggio del dolore al fine di smontare la normalità – l’autentica «catastrofe nascosta» –, di «sentire il grisou della storia», per produrre «imperiosi effetti di verità» capaci di liberare una «forza che permette di vedere altre cose».

Cuore pulsante di entrambi gli eventi è una «disperata vitalità», un montaggio di «lingua e corpo», che trasforma il pianto in rivendicazione politica, in com/mozione: movimento collettivo che, con rabbiosa dolcezza, rifiuta «qualsiasi ordine stabilito». E se togliessimo dall’ombra che, malgrado tutto, Didi-Huberman ha steso su quella sterminata schiera di «pulcini in gabbia» utilizzati nelle miniere perché, con il fremere delle loro piume, erano in grado di «veder venire un pericolo di esplosione», capiremmo fino in fondo – e oltre l’umano – quanto «il montaggio sia destinato a prendere atto della morte per smontarla e quindi rimontare la vita».