L’immagine di Tokyo come metropoli composta di grattacieli e piccoli vicoli che si intrecciano in un labirinto di cemento, ha certamente fondamento nel suo essere però una città polifonica e «acefala», priva cioè di un vero e proprio centro, in cui spesso si riescono a scoprire delle oasi di verde e di tranquillità inaspettate. È proprio in uno di questi distretti immersi nella natura, Mitaka, a circa venti minuti di treno dalla stazione centrale di Tokyo, che si trova il Museo dello Studio Ghibli, costruito nel 2001 e progettato dallo stesso Hayao Miyazaki in parte come un libro illustrato a tre dimensioni.

Dallo scorso 21 marzo e fino al prossimo novembre il museo, che museo proprio tipico non è, ospita il nuovo cortometraggio realizzato da Miyazaki, un lavoro che lo ha sospeso dal «pensionamento» precoce dopo quello che doveva essere il suo ultimo lungometraggio, Si alza il vento, nel 2013. Come si sa invece il settantasettenne animatore non solo ha realizzato questo film ma è attualmente al lavoro su un lungometraggio che uscirà probabilmente nel 2020 (dovrebbe chiamarsi Qual è il tuo modo di vivere? dal romanzo uscito nel 1937 del giornalista Genzaburo Yoshino, la scoperta della vita di un adolescente grazie al rapporto con lo zio, ndr).

Il cortometraggio si intitola Kemushi no Boro, Boro il bruco, e come gli altri corti realizzati da Miyazaki e dallo Studio Ghibli, è visibile solo all’interno del museo, nel Teatro Saturno, il piccolissimo teatro in legno. Il fatto che i cortometraggi siano mostrati seguendo questa procedura è importante perché quasi tutti questi lavori hanno un tono diverso dai film lunghi di solito ideati da Miyazaki; il museo è infatti una sorta di parco giochi pieno di bambini che ridono, schiamazzano e parlano o fanno domande ai genitori anche durante la proiezione, un fatto totalmente in linea con lo spirito del museo stesso.

 

Spesso questi cortometraggi, almeno quelli meglio riusciti, sono allo stesso tempo sia molto diretti e capaci di intrattenere i piccoli spettatori, sia sperimentali da un punto di vista strettamente visivo e tecnico. Molte volte Miyazaki ha usato l’arte del formato breve per provare nuove cose, ad esempio Yadosagashi (In cerca di casa) con l’uso visivo delle onomatopee e con un tratto scarno ha in qualche modo influenzato ed è servito come banco di prova sia per Ponyo sulla scogliera che per il sound design di Si alza il vento.

Anche Boro il bruco è, in questo senso, un cortometraggio sperimentale; innanzitutto si tratta del primo lavoro realizzato da Miyazaki in computer graphic e, in secondo luogo, è completamente privo di dialogo, accompagnato soltanto da rumori. La storia è in apparenza di una semplicità disarmante, un bruco nasce e fa esperienza del mondo che lo circonda per la prima volta; siamo in un piccolo giardino dove si muove e si sviluppa un microcosmo di animali e piante che partecipa agli altri elementi della realtà quali la luce del sole, l’acqua e la terra.

Se è vero che durante i 14 minuti dell’animazione non ci sono dialoghi, in realtà non ci sono neanche suoni naturali, tutti i rumori ed i suoni degli insetti infatti, lo svolazzare, il mangiare una foglia, il senso di paura e la caduta sono resi dalla voce umana – nello specifico quella del bruco appartiene a Tamori, un famoso personaggio televisivo giapponese. Questa scelta già sperimentata in Yadosagashi e Si alza il vento dona al film un tono surreale di straniamento ed è funzionale all’idea di fondo che ha spinto Miyazaki a portare sullo schermo una storia che lo aveva interessato anni fa.

L’universo del giardino ed il breve viaggio che il bruco protagonista fa nei pochi minuti del lavoro sono resi dal punto di vista del piccolo insetto appena nato, quelle che forse sono gocce d’acqua sono rese con dei cubetti trasparenti che si librano nel cielo e si frantumano non appena toccano le foglie, quelli che probabilmente sono i raggi del sole, sono dei lunghi e gelatinosi cilindri gialli, mentre uno degli insetti volanti che attacca la comunità dei bruchi è disegnato come una sorta di guerriero o demone maligno.

Ma Boro il bruco è anche uno dei lavori di Miyazaki più divertenti e comici, fin dai primissimi secondi, lo stile del disegno unito ai versi/rumori dalla voce umana hanno fatto scoppiare dalle risate tutti gli spettatori nella proiezione a cui abbiamo assistito, adulti, anziani e bambini peraltro di varia nazionalità. Con tipico stile miyazakiano la dolcezza del disegno si mescola a situazioni e improvvisi toni da horror, la comunità di bruchi neri che si rivela tutto d’un tratto sotto le foglie, la pioggia di escrementi cubici che fa scappare tutti (e che ha fatto impazzire di risa la piccola sala), fino alla brutale uccisione di due bruchi da parte dell’insetto volante.

Pur essendo un’opera di facile fruizione da parte di tutti, bambini e non, Boro il bruco nasce, per ammissione dello stesso Miyazaki, dall’idea che il punto di vista umano sia solo uno dei tanti possibili, tutto il cortometraggio è immerso infatti nella realtà così come è percepita e creata da parte di un piccolo bruco. Si attua qui quel principio filosofico che Miyazaki ha esplorato in tante sue opere, quella de-antropologizzazione del reale che secondo l’artista giapponese è l’unico modo per stare al mondo in maniera davvero ecologica e forse l’unica possibilità di sopravvivenza per la comunità umana, tanto che ne ha spesso scritto e parlato in interviste e articoli.

Un’ ultima nota sulla tecnica usata da Miyazaki: come si diceva Boro il bruco è una tappa importante per il regista nell’uso della computer graphic. Il risultato è a dir poco sorprendente perché sembra di assistere a un’animazione tradizionale disegnata a mano, tanto per le sfumature che talvolta trasformano i disegni in macchie di colore come in un acquarello, tanto per la fluidità del movimento davvero impressionante. Se queste sono le premesse di quello che Miyazaki potrebbe fare con la CG, allora ben venga il nuovo lungometraggio che sta preparando con lo Studio Ghibli.