Nel romanzo distopico Il cerchio (Mondadori) di Dave Eggers, la piattaforma digitale, che dà il nome al libro, si propone di eliminare ogni segreto, ogni oscurità dalle relazioni sociali. L’obiettivo non è solo l’accesso aperto all’interiorità umana – con l’eccezione dei pazienti in coma – ma soprattutto l’autocorrezione degli individui che, agendo sempre in pubblico, eliminerebbero dal loro comportamento, e perfino dai loro pensieri, ogni possibile atto criminale o solo asociale. La privacy è un furto si legge sulle mura dell’azienda monopolista della trasparenza totale.

Contro questo modello di società cristallina, infaticabile e iper-competitiva si scaglia il furore polemico di un filosofo poco ortodosso, Byung-Chul Han, coreano, ma educato in Germania, professore all’Universität der Künste di Berlino. Il suo ultimo libro tradotto in italiano è Psicopolitica (Nottetempo, pp. 110, euro 12). La sua produzione più internazionale è costituita soprattutto da pamphlet, testi che rimandano gli uni agli altri, concentrati su una critica serrata e incalzante al tecnopotere con le sue strategie per una governamentalità del presente.

A caccia di like

La società della stanchezza (2012) discute la competizione costante nella società contemporanea, causa di depressione, deficit di attenzione e sindrome borderline: la disponibilità permanente di beni e servizi rende l’essere umano inadatto a fronteggiare la negatività dell’esistenza. Eros in agonia (2013) affronta la perdita di forza dell’Eros, la sua progressiva incapacità di resistenza – attraverso l’esperienza anarchica del desiderio – contro la volontà del potere di serializzare l’emozione. La società della trasparenza (2014) e Nello sciame (2015) offrono insieme una disamina stringente della tecnocrazia, ispirata tra l’altro a Martin Heidegger e alla scuola di Francoforte. La trasparenza non riduce i giochi di potere ma mette in scena un’intimità pornografica, che non smette di esibirsi in ogni istante, alimentando il narcisismo con il suo bisogno costante dello sguardo di spettatori «amici» su di sé. Il rischio è che l’individuazione della soggettività non passi più per un racconto, per il filo della narrazione, ma si limiti a incarnarsi nel conteggio dei like, ottenuti attraverso la presunta condivisione delle emozioni. Non una storia quindi, ma un calcolo.

Al centro di Psicopolitica troviamo il potere del capitale espresso nella tecnologia di controllo della psiche, prima che del corpo, come se fosse possibile separarli. L’intelligenza del potere si manifesta come seduzione piuttosto che come repressione, o proibizione. Sfrutta la libertà per orientare, auto-organizzare e auto-ottimizzare i desideri, le emozioni e il piacere. L’esergo del libro è una frase dell’artista Jenny Holzer, scritta a caratteri luminosi cubitali sui palazzi: Protect me from what I want. Come possiamo essere protetti dalla nostra tendenza alla dipendenza, al narcisismo, al godimento illimitato, promesso da una società senza interruzioni, senza segreti, senza estraneità o diversità, senza silenzio?

Lo scenario della psicopolitica è claustrofobico. Gli unici spazi agibili sembrano essere quelli preconfezionati dall’intelligenza del tecnopotere. La razionalità è adatta alle società disciplinari, dove tutto funzionava perfettamente, mentre nel presente prevale l’emotività passeggera e instabile, che si presta a essere continuamente consumata, meglio delle merci materiali. La psicopolitica usa le emozioni per il loro carattere preriflessivo che permette di anticipare la volontà individuale, orientando l’esercizio della libertà del soggetto, attraverso un intervento diretto sull’inconscio.

Han suggerisce diverse strategie difensive. L’improduttività, cioè l’ozio, la libertà dal lavoro sarebbe l’unica forza rivoluzionaria capace di sottrarsi alla trascendenza del capitale, per conquistare l’immanenza dell’esistenza. L’altro strumento è il gioco, a patto di non subire una ludificazione del lavoro, cioè di introiettare le sue pratiche nei contesti lavorativi, svuotandole della loro forza. Il gioco accoglie l’imprevisto e l’imprevedibile e perciò può costituire l’esperienza: l’evento inaspettato, una discontinuità liberatoria che sottrae il soggetto alla sua naturale condizione di sottomissione al capitale.

Scetticismo tecnologico

L’analisi dei Big Data sconcerta per il grande potere divinatorio che Han gli attribuisce. Condivisibile è la critica all’introduzione di categorie discriminatorie come waste (spazzatura) assegnata al gruppo dei poveri dalla Acxiom, azienda broker di dati. Più problematica è l’assunzione che l’analisi quantitativa sia in grado di penetrare nell’inconscio del soggetto per anticiparne e modificarne il dispositivo a vantaggio del capitale. Tale visione sembra condividere con i tecno-entusiasti una fiducia sfrenata nei confronti delle piattaforme algoritmiche della Big Data analysis, che potrebbe essere discutibile.

Attraverso i Big Data, la psicopolitica neoliberale attua, secondo Han, una strategia di controllo e programmazione psicologica che perpetua la soggettività come coatta e ripetitiva. Per difendersi bisogna sviluppare l’arte di vivere come de-psicologizzazione, verso «una nuova forma di vita, che non ha ancora un nome». Il libro suggerisce, quindi, di abbandonare l’inconscio, ormai colonizzato e inquinato dalle previsioni e dalle rappresentazioni dei Big Data. Il programma di Han sembra parecchio ambizioso e forse velleitario.

L’avanguardia rivoluzionaria del processo di liberazione sarebbe l’idiot savant, portatore di un sapere diverso, impossibile da normalizzare, privo di intelligenza (facoltà troppo funzionale al sistema), capace di accogliere il vuoto, di istituire una singolarità che non è soggettiva o individuale. Eppure la singolarità dell’idiota resta, nella descrizione di Han, aristocratica e individualista. La resistenza alla psicopolitica non esce dal claustrum nel quale il potere l’ha chiusa se non a prezzo di un’assoluta solitudine, della negazione della dimensione sociale dell’essere umano.