Come i ciliegi selvatici che tanto amava, la sua formazione è stata lunghissima e la sua fioritura breve ma meravigliosa. Dodici anni di lavoro che hanno lasciato ai posteri un’opera composta da una ventina tra romanzi, racconti, saggi e memorie, molti dei quali considerati oggi capolavori assoluti e fonte di ispirazione per un’intera generazione di grandi scrittori, da Tanizaki Yunichiro a Kawabata Yasunari, fino ad arrivare a Mishima Yukio.
Natsume Soseki, nato a Edo, l’odierna Tokyo, nel 1867 e morto nella sua città natale 100 anni fa (il 9 dicembre del 1916), è stato il sensei, ossia il maestro dei maestri della letteratura giapponese contemporanea. Nonostante una produzione quantitativamente piuttosto contenuta può essere considerato tra i maggiori intellettuali della sua epoca e uno dei più significativi rappresentanti della crisi dell’uomo moderno.

LA SUA RICERCA ARTISTICA è stata incredibilmente articolata e complessa e ha toccato temi molto distanti tra loro: la scrittura come pittura attraverso le parole, la satira dei costumi e della società del suo tempo, il turbamento e il disagio legati all’abbandono della tradizione, il distacco dalla realtà che ci circonda, la difficoltà del rapporto con gli altri, la contemplazione estatica della natura. Idee e concetti che sono penetrati a fondo nella cultura del Sol Levante, che ha venerato e venera uno scrittore il cui viso è stato ritratto per venti anni (dal 1984 al 2004) sulle banconote da mille yen e i cui testi, ancora oggi stampati e tradotti in tutto il mondo, continuano a essere studiati nelle scuole dell’intero arcipelago.

Quinto figlio di un funzionario della pubblica amministrazione, Soseki studiò inglese nella prestigiosa Tokyo Teikoku Daigaku, l’Università Imperiale di Tokyo, e dopo essersi laureato nel 1983 si recò in Inghilterra, dove rimase per tre anni, approfondendo lo studio della lingua. Al suo ritorno in patria assunse la cattedra di letteratura inglese all’Università Imperiale, iniziando un’attività accademica non particolarmente brillante.

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PER NATURA UMBRATILE e profondamente spaesato dai rapidi cambiamenti che il suo paese stava sperimentando aprendosi all’Occidente, Soseki visse la prima parte della sua formazione artistica all’ombra dell’amico Shiki Masaoka, noto scrittore di haiku. Lui stesso cominciò ben presto a cimentarsi con la poesia, pubblicando su alcune riviste, senza ottenere però significativi risultati. Influenzato dal pittore Nakamura Fusetsu, Shiki aderì al progetto da questo ideato degli «schizzi dal vero», che incoraggiava gli artisti a liberarsi delle vecchie convenzioni e a rappresentare il mondo reale intorno a loro. Anche Soseki venne coinvolto. Ma nella sua testa già allora andava formandosi un’idea diametralmente opposta: né un pittore né un poeta possono raffigurare la realtà che li circonda.

L’artista ha solo la possibilità di fornire un’immagine del mondo come viene riflesso dallo specchio della propria coscienza, che è mutevole e incostante. Tema, questo, destinato a divenire centrale nell’opera dello scrittore, nella quale non a caso compaiono sovente i sakura, i delicati fiori del ciliegio, simbolo dell’impermanenza della bellezza e della malinconica nostalgia legata al suo incessante mutamento. Concetto estetico sintetizzato nell’espressione mono no aware, sviluppato nel periodo Heian (794-1185) e divenuto poi uno dei tòpoi della letteratura classica giapponese. La vita, dicono i sakura e crede Soseki, può riservare momenti di una bellezza quasi eccessiva ma al tempo stesso tragicamente brevi. «Se mi fosse chiesto di spiegare lo spirito della cultura giapponese, direi che esso è i fiori di ciliegio illuminati dal sole del mattino», ha scritto l’erudito Motoori Norinaga, vissuto nel periodo Edo (1603-1868).

GIUNTO ALLE SOGLIE dei quarant’anni, Soseki aveva raccolto la secolare tradizione culturale alle sue spalle. Ma, essendo nato alle soglie dell’era Meiji, si era dovuto anche confrontare con la rapida trasformazione del suo paese da stato feudale a potenza mondiale capitalistica e imperialistica, figlia della rivoluzione industriale e della modernizzazione. Il potere dei daimyo (signori feudali) era solo un pallido ricordo del passato, e la rivolta dei samurai a Satsuma nel 1877 contro la restaurazione del potere imperiale da parte del tenno (sovrano celeste) Mutsuhito era un episodio quasi dimenticato.

In questo contesto, probabilmente grazie alla morte di Shiki nel 1902, Soseki maturò un profondo distacco dalla corrente artistica prevalente in quel momento, incentrata unicamente sulla raffigurazione della natura.
Nel 1905, quando aveva ormai 38 anni, pubblicò il suo primo libro, Wagahai wa neko de aru (Io sono un gatto). Aiutato dalla frequentazione delle opere di Jonathan Swift e Laurence Sterne, lo scrittore brandì il sarcasmo come fosse una katana e, attraverso gli occhi del gatto dal pelo giallo e grigio protagonista del suo romanzo, si scagliò contro l’occidentalizzazione che stava contaminando come una piaga il Giappone all’alba del XX secolo.

NEL 1906 PUBBLICÒ Bocchan (Il signorino), e Kusamakura (Guanciale d’erba), uno dei suoi romanzi più poetici e introspettivi. L’anno successivo lasciò l’insegnamento universitario per assumere un incarico all’Asahi Shinbun, il maggior quotidiano giapponese, e dedicarsi interamente alla scrittura. Del 1908 sono altre due opere fondamentali: l’onirico Yumejuya, (Dieci notti di sogno) e Sanshiro (Sanshiro), primo libro di una trilogia comprendente Sorekara (E poi) e Mon (La porta), entrambi del 1910.

Nel 1914 uscì Watakushi no kojinshugi (Il mio individualismo), raffinato saggio sulla valenza e l’importanza psicologica e sociale dell’autonomia intellettuale. Nello stesso anno venne dato alle stampe quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro assoluto: Kokoro (Il cuore delle cose). Chiaramente influenzata dal Mercante di Venezia di Shakespeare, l’opera tratta del rapporto tra un giovane e il suo sensei, figura estremamente riservata, con alle spalle un passato avvolto dal più fitto mistero.

NONOSTANTE I TENTATIVI del protagonista di venire a capo del grande enigma che aleggia intorno al suo mentore, questo si opporrà sempre in modo deciso a qualsiasi rivelazione, che arriverà solo da una lettera scritta al discepolo prima di togliersi la vita scegliendo il junshi, suicidio per seguire il proprio signore nella morte, inspirato a quello compiuto dal generale Nogi Maresuke nel giorno dei funerali dell’Imperatore Mutsuhito. «Tu ed io apparteniamo ad epoche differenti, perciò la pensiamo in modo differente. E non possiamo fare niente per gettare un ponte sul vuoto che ci separa», spiegherà il maestro all’allievo.