Angéle (Ariane Ascaride), Joseph (Jean-Pierre Daroussin) e Armand (Gèrard Meylan) sono tre fratelli, la vita li ha separati, portati lontano da quel piccolo borgo fuori Marsiglia, dove Angéle, attrice famosa, non è mai più tornata dopo un feroce dolore, e nemmeno Jospeh, che da giovane sognava la rivoluzione. Ci è rimasto Armand che continua a cucinare per chi passa nel piccolo ristorante di fronte al mare anche se intorno proprio come loro tutto è cambiato; i giovani sono partiti cercando carriera altrove, la classe operaia si è spenta fino a suicidarsi, la gentrificazione è in agguato. I tre si ritrovano per vegliare il vecchio padre, rimasto senza coscienza e senza parola, come un certo mondo oggi: disillusi, amareggiati, chiusi in un diffusorancore. Poi accade qualcosa, un vasetto di marmellata scompare, si palesano presenze clandestine e sconosciute, tre bimbi, tre piccoli migranti che riaccendono la vita dei fratelli dando un senso nuovo, e vissuto, a parole come solidarietà.

 

 

La Villa, questo il titolo originale del film, in sala il prossimo giovedì 12 come La casa sul mare, è il nuovo film di Robert Guédiguian in cui il regista ritrova i suoi attori feticcio filmati nello stesso luogo, la calanque de Méjean, fuori Marsiglia, oltre trent’anni fa, l’immagine gioiosa di allora sovrimpressa al grigio di oggi. Ma la malinconia dell’«era meglio prima», la frase che ripete Joseph alla giovane fidanzata assume una sfumatura diversa; non solo rimpianto ma ricerca di un gesto da opporre al presente, al fascismo delle leggi speciali, alle frontiere lungo le quali si dà la caccia ai migranti. E quel piccolo mondo diviso tra un passato (scomparso) e un presente che si può ancora inventare si trasforma in una dichiarazione di utopia. Fragile, forse, ma ancora possibile. Con Guédiguian e Ascaride ci incontriamo una mattina romana di pioggia. Sono una coppia complice da anni e ancora una volta il personaggio di Ascaride è sfaccettato e sensuale. Una meraviglia: «Finché ci sarà lui» sorride l’attrice.

 

«La casa sul mare»racchiude storie familiari che divengono espressione del mondo, come se ogni personaggio fosse sé stesso e un segno del nostro tempo.

Siamo in un microcosmo che è un teatro di tutta la nostra società, i personaggi sono archetipi di una professione, di una generazione, finché in quel piccolo universo che, appunto, è un po’ il nostro arriva quello più grande, i tre bambini migranti in fuga. Tenere insieme la narrazione e la sua natura di metafora è stato forse l’aspetto più complicato della sceneggiatura. Volevo che accadesse in modo «naturale», che la narrazione mentre andava avanti divenisse una parabola della società intera. Quando mi è sembrato di riuscirci è come se fosse avvenuto un «miracolo» ma in fondo in ogni film bello c’è qualcosa di «miracoloso», di inspiegabile nell’alchimia del suo funzionamento.

 

 

La storia inizia con un trauma, il padre dei protagonisti colpito da un ictus. Ma le esperienze traumatiche caratterizzano tutti i protagonisti e anche i luoghi a cui appartengono.

C’è un dolore intellettuale nel loro rapporto col mondo, nessuno sembra abbastanza «attrezzato» per fare fronte alle difficoltà che incontra. E c’è un dolore fisico. Mi interessava esplorare lo spazio tra queste due dimensioni che è dove affiorano i traumi di un’epoca.

Angéle è una donna di successo, segnata da un grande dolore, che sembra però non credere più in nulla.

(Risponde Ariane Ascaride) C’è qualcosa che rimanda alla tragedia greca in lei. Ma la scommessa più interessante era per me quella di interpretare un’attrice. È sempre molto complicato, si rischia l’immagine stereotipata: come appare un’attrice? Tornando a casa Angéle si lascia pian piano attraversa dalle pietre, dal mare, dal silenzio del padre, ritrova il coraggio di vivere e di amare.

 

Ha utilizzato alcune immagini girate anni fa con gli attori del film, un archivio che è quasi un cortocircuito temporale.

Capita raramente di avere a disposizione degli archivi personali sui luoghi dove si lavora, e in effetti questa possibilità mi ha permesso di creare una relazione tra presente e passato senza forzature, in cui si restituisce la verità del tempo che passa e dei suoi mutamenti. Per me è molto importante il legame coi luoghi, ho scelto di girare lì perché frequento quel posto da tantissimi anni, conosco chi ci vive. I luoghi non sono una semplice cornice ma devono raccontare una storia proprio come i personaggi. Accade spesso che un posto dove abbiamo girato un film scompaia o si trasformi completamente perchè lo abbiamo colto in un momento di crisi. Ma credo che sia il crinale su cui deve lavorare il cinema, quello stato che Gramsci definiva con molta precisione quando parlava del vecchio che tarda a morire e del nuovo che fatica nascere.

 

Il nuovo nel suo film sono i più giovani che anche se non tutti sembrano molto sintonizzati con la «generazione Macron».

Vivono nel presente, hanno un progetto di vita «En Marche» che non sappiamo ancora come andrà avanti. Però c’è anche chi come il personaggio di Benjamin (Robinson Stévenin), il ragazzo pescatore è rimasto nel borgo marinaro; è moderno e al tempo stesso non vuole nascondere la sua educazione popolare, ama la cultura e il suo lavoro. Lo stesso vale per la gioventù francese, non tutti accettano di cedere alle sirene del capitalismo, molti resistono rivendicando un sistema sociale più equo.

 

A proposito, in questi giorni lo sciopero dei ferrovieri ha dimostrato che una parte importante della società francese si oppone ai disegni di Macron.

Il nostro governo è irresponsabile, mostra disprezzo verso la maggior parte dei cittadini perché è convinto di avere la maggioranza dell’opinione pubblica dalla sua parte. Lo sciopero è stato molto più grande di quanto il governo aveva previsto e gli ha fatto capire che invece molti voglio ancora difendere i servizi pubblici, e soprattutto una repubblica basata su principi egualitari. Insieme a altri registi abbiamo devoluto i nostri incassi ai ferrovieri in lotta, questo movimento è importante, sta crescendo, vedremo cosa succederà.

 

Rispetto a altri suoi film, penso a «Le nevi del Kilimangiaro» nel quale l’anziano operaio veniva completamente spiazzato dalle azioni dei più giovani, qui è come se lasciasse aperta la possibilità, almeno a quel microcosmo, di farsi attraversare da una nuova enegia che ha il volto dei piccoli migranti. Tutto il contrario di quanto accade in Francia e, più in generale in Europa, dove le politiche xenofobe e razziste sono spesso vittoriose.

Credo profondamente che nel rapporto oggi con tutti i rifugiati, politici e economici possiamo costruire un nuovo internazionalismo. Forse è soltanto un sogno ma sono convinto che sia necessario conviverci; ormai esiste un solo mondo unico e indivisibile che non può continuare a essere diviso secondo i parametri delle ricchezze attuali, con la concentrazione di molti beni tra pochi e nulla per i più. Il liberalismo stabilisce delle frontiere per gli uomini e non per le merci e i migranti sono la più forte opposizione a questo. Per un secolo abbiamo avuto l’impero delle nazioni, ora dobbiamo imparare che tutti hanno il diritto di godere la vita, in Francia, in Germania, in Italia, il cibo è buono, il vino, la pasta, perché non possono usufruirne anche loro?Perché devono morire di fame dove sono nati?