Reduce dal Sundance e da Sitges – due festival che evocano svariati tipi di garanzia, suggestioni e capolavori come ad esempio La fin absolue du monde di Backovic – arriva in sala lo sguardo sgranato e magnetico, fisso su quell’impalcatura scricchiolante e squallida che è il mondo, di Andrea Riseborough (miglior attrice a Sitges appunto), che è anche quello della regista Christina Choe, al suo primo film. Fissità dello sguardo da parte del film allora, spalancato, ipnotizzato, che si riversa al di là dello schermo, sulla platea, su chi guarda e si ritrova a un tratto a essere guardato dalle immagini, questo ruvido, ottuso palinsesto di finzione, di bugie rivelanti la verità del mondo.

Nancy è un esempio interessante di film dalle verità prismatiche, bugie si direbbe, io dico possibilità d’essere, condotte di volta in volta dalla recita di Nancy, attrice perfetta, credibile, e aspirante scrittrice, intenta a ideare mondi, personaggi, se stessa in quanto personaggio, che si tratti di descrivere (o inventare) un viaggio in Corea del Nord, o di simulare una gravidanza, pur di attrarre le attenzioni di colleghi di lavoro (nel primo caso) o di un disperato conosciuto su internet.

C’è una disperazione strisciante nella trama di cose diacce, dei movimenti irrigiditi, come rattrappiti dei corpi, proprio del tempo sostanziale, cinematografico, che scandisce questo film: qualcosa che ricorda il primo Egoyan o il Soderbergh più intimista e crepuscolare di Bubble, se per crepuscolare si intende la qualità delle cose comuni, scialbe, accatastate; dello sbratto di stoviglie, lettere, elenchi telefonici, mentre il televisore blatera in sottofondo.

Così come crepuscolare, claustrofobico, ripiegato sulla dimensione banale e alienata degli oggetti, è il quadro in 4:3 in cui Nancy si ritrova ad agire, come grattando dagli intonaci, raccattando dall’incerato o dal pavimento briciole di affezione che però non ci sono (la madre refrattaria a ogni abbraccio, lo sconosciuto che scappa offeso, ecc.) e allora deve inventare, deve inventarsi, scriversi, e interpretare di volta in volta il proprio canovaccio.

SCRITTURA dell’identità, dell’origine; dissertazione sulla genitorialità mancata o rubata: Nancy è sradicata, non ha origine, non ha certificato di nascita, galleggia in una realtà sospesa e soffocante, sedimentata dalla solitudine più tetra e tetragona, quella che ti fa sgranare le orbite di fronte al vuoto grido dell’esserci tuo malgrado. E anche quando l’inquadratura si apre verso il panoramico, quando Nancy s’appresta a partire alla conquista dei genitori, il panorama si rivela solo un’altra versione della chiusura opprimente infusa dal silenzio e dal freddo, dalla mancanza, dall’assenza dell’altro, di qualsiasi altro, che si dispiega nella neve, che è neve e freddo e abnorme desolazione del cielo slavato.

Sotto questa cappa gelida, che dalle sfumature di grigio tramortisce le esistenze, poi le fagocita e le evacua in vastità di inconsistenza, Choe ripensa l’identità, gioca con le fisionomie di Steve Buscemi e Andrea Riseborough, quegli occhi sgomenti, inespressivi, che sono di entrambi e potrebbero essere il segno di una parentela; e gioca con le foto, con le immagini, tutt’altro che il referto sicuro di queste identità: l’immagine è il terreno su cui si verifica, si comprova l’ambiguità, la permutazione delle personalità senza possibilità di conoscerne la verità bensì le innumerevoli, cangianti, recitate verità.

Così Nancy è se stessa, è autentica nella tensione costante alla finzione; è autentico simulacro a incarnazione costante, ed è forse questa una possibile via di fuga (da quel cielo algido e indifferente) e una forma paradossale, vertiginosa di libertà.