Era «nel fuoco d’una controversia» che Mario Luzi riconosceva al poeta il suo posto nella storia: «ridotto a me stesso?», si chiedeva. A quasi quarant’anni di distanza, Patrizia Giovannoni torna a suo modo a quell’interrogativo, a quel punto. È un punto che fissa il mondo come attraverso una lente. Come un tempo attraverso una macchina fotografica non digitale: metti a fuoco, guarda attraverso il mirino. Visione al fuoco di un’architettura è una raccolta poetica di Patrizia Giovannoni per l’editore LietoColle (pp.67, euro 13). Roberto Mussapi, che ne cura l’introduzione, dispone per noi i punti focali. Il titolo è chiaro: si tratta di qualcosa che somiglia a un’architettura.

Il libro si compone di cinque parti e, procedendo, la visione si dipana senza abbandonare la sua natura: la prima sezione già dichiara che la visione è illusoria, è l’«illusione della prospettiva». Tutto sta sullo stesso piano. Si sta come dentro a una città vacante, cioè bucata. È una «cinematica di déjà vu». Bene o male è una forma di memoria. La luce stessa fa paura. Lo dice il titolo d’una poesia: è una Fotofobia. È un buio spaventoso: «C’è un filo che fugge la luce della mano/ per tessere la casa all’animale notturno».
La seconda sezione è tra sonno e veglia. Sono fotogrammi: «un uomo solo, eretto e silenzioso». In una lux perpetua. È nella terza sezione che, chi avanza, troverà Fondamenta terrestri. Cioè le nostre fondamenta, o meglio quelle che furono le nostre fondamenta. Guàrdati intorno e guarda in basso: che terra è quella su cui poggiamo i piedi? «Non ricordo chi fosse mio fratello». Sarebbe disperante, sarebbe inutile «incrociare» due parole.

Questa raccolta di poesia di Patrizia Giovannoni si erge complessa e disadorna insieme: ci mostra quadri, figure, orme. Quadri, sì. Scelti tra i più silenziosi. Nella quinta sezione troviamo una poesia titolata Dalla finestra di Edward Hopper ma non una strada di New York appare ai nostri occhi ma un deserto mare, deserto neve. Questo ha fatto il tempo nel suo corso. È la costruzione del tempo, solitudine, rovine.

Sarebbe disperante, ma ci sorprende felicemente sul finire del libro un Preludio alla metamorfosi. «Ah, sì, le cose cambieranno, e anche noi cambieremo». La parola edificherà nuove città, sorgeranno nuove architetture. «Per me nasceranno umane città – scriveva Simone Weil – Il mondo è nato, fallo durare, vento, nel tuo soffio». Nella poesia che chiude il libro, Giovannoni si sposta dalla visione e ci fa entrare in una riflessione: c’è un uomo stanco che esce dal campo visivo, e la poetessa ci lascia intendere che è come sua rivelazione ma anche suo nascondimento. Libro complesso, costruito su più piani e su un altrove. Ed è lì, fuori dal campo visivo che l’autrice ci presenta il Maestro. «Non i miracoli faccio, faccio le magie», dice il Maestro.