«Sono molto serio oggi pomeriggio». Esordisce così Otar Iosseliani guardando, con curiosità infantile, nuovi sport acquatici sulle rive del lago, dall’alto della terrazza del suo hotel. Una premessa/promessa che manterrà per tutta la durata di una conversazione vagabonda e volatile, fatta di parole liquide che assumono, ogni tanto, la forma di una risposta sospesa fra una lezione di Storia e una condanna alla vuota modernità imperante. Il Cinema-Pensiero del regista georgiano intriso di entusiasmo fatalista, di partiture umaniste e di balletti ludici sul crinale del pessimismo, non può che riflettersi anche nel discorso, nei vocaboli dosati con ironia, nelle pause, nel silenzio e nel suono. Addirittura nel desiderio di cantare un’antica canzone georgiana, intonata con dolce nostalgia da bettola, vero e proprio Canto d’inverno come il titolo del suo nuovo bellissimo film.

 

È curioso come nella sua filmografia ricorrano spesso le stagioni: «Aprile» era un suo cortometraggio giovanile, qualche anno fa «Giardini in autunno»,ora «Chant d’hiver». Sembra quasi che accompagnino nel loro susseguirsi il suo cammino nel cinema.

I «canti d’inverno» sono le vecchie canzone delle persone che non hanno nulla da fare. In inverno la gente non ha niente da fare e francamente nemmeno io. Sono semplici canti di memoria, di nostalgia, di quello che prima c’era e ora non esiste più.

 

In passato ha studiato musica e, prima del cinema, ha dedicato gli anni universitari a studi matematici. «Chant d’hiver» sembra quasi unire queste due discipline: i tre momenti storici del film assomigliano ai movimenti di una sinfonia mentre i personaggi si affannano a interpretare le leggi del Mondo.

La matematica è un mestiere che implica la ricerca di un modello del mondo ma si non può avere la pretesa della perfezione. Ci avviciniamo con il cinema a qualcosa che assomiglia alla descrizione del fenomeno della vita. Noi matematici sappiamo benissimo che la formula riflette quello che ci accade attorno, e in questo senso mi sento puramente un matematico. Allo stesso tempo, in questa vita piena di sciocchezze ed errori, sono più attratto dalle falle che esistono nel mondo piuttosto che dalle equazioni che cercano di descriverlo. Il risultato finale è un grande caos e questo film si rivolge a qualcuno che capisce questo bordello;è per questo che non ho masse di spettatori, che non mi rivolgo agli stadi, che non penso al pubblico che ascolta Madonna. Per tornare alla musica, odio la musica di oggi, la vera musica è qualcosa di molto fragile e tenero e quando la si ascolta non si può certo essere sotto a un palco insieme a centomila persone, questa è una tragedia. Stessa cosa per un film: è impossibile guardare Jean Vigo mangiando i popcorn.

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Quindi per lei lo spettatore è obbligato a partecipare con il proprio pensiero durante la visione di un suo film?
Certamente! Anche lo spettatore deve lavorare quanto lavora il cineasta, o almeno un pò: noi registi offriamo qualcosa che non si può prendere in modo passivo mangiando popcorn. Non voglio certo paragonarmi a Vigo, lo porto come esempio. Bisogna lavorare, capire, vedere e il mio film è semplice, bisogna avere solo qualche rotella che funziona per capirlo. Ci vogliono spettatori attivi e purtroppo non sono numerosi, io stesso non sono sicuro di pensare nella maniera più giusta. E invece si deve comprendere che cosa sia questa porcata di vita sulla Terra anche se la risposta non la si troverà mai. Io e il mio spettatore respiriamo insieme, e non siamo in tanti noi cineasti, a voler condividere un vero pensiero con lo spettatore. Quando vedo un film che è destinato a me sono felice.

 

Nel suo film l’attualità (le scene con gli immigrati, la guerra ad esempio) convive con una visione surreale del quotidiano mentre si ha l’impressione che i suoi personaggi siano incapaci di sfuggire agli obiettivi dei binocoli o delle macchine fotografiche del Potere.
Non cerco mai di stabilire o dichiarare niente in maniera definitiva. Tutto il mondo si ritrova di fronte a un’enorme catastrofe europea, questa è l’unica certezza. La macchina fotografica è stata inventata molto tempo fa per fissare gli eventi, le famiglie, i ricchi, i poveri contadini ed era dieci volte più importante del cinema. Il cinema, se non è arte, non ha alcuna importanza, bisogna metterci l’anima e i fabbricanti di cinema pensano soltanto ai soldi. Non è cinema in quel caso. Una volta in India c’era Satyajit Ray, ora c’è Bollywood, oggi in Cina non c’è cinema ma semplicemente una copia conforme di Hollywood. Ora è arrivato anche il digitale che ha reso il cinema trasportabile come un pacchetto di sigarette ma se premi un pulsante scompare mentre la pellicola resta.

 

Qualche parole sulla presenza di Enrico Ghezzi. Nel film interpreta un nobile decaduto, costretto a lasciare la sua dimora. Mi ha fatto pensare al «castello Fuori Orario» che lui e il suo gruppo di lavoro altri hanno «fortificato» nel corso degli anni all’interno del servizio pubblico Rai.

Enrico è un amico ed è uno degli ultimi dei Mohicani. Non posso certo dirvi io che tipo di influenza ha oggi e ha avuto negli anni passati sull’intellighenzia italiana ma io, lui e un altro amico ora scomparso da un po’ di tempo, ci siamo riuniti tanti anni fa e abbiamo cercato di non fare semplicemente del cinema ma di lasciare un messaggio e se questo messaggio finalmente arrivasse alle stupide teste degli italiani non sarebbe male.