Sono gli elementi stessi del pattern a trovare una nuova definizione all’interno dell’opera, per Faig Ahmed (è nato a Baku nel 1982, dove vive e lavora) sperimentare è un aspetto fondamentale del processo creativo. Nei suoi tappeti, a cui si dedica dal 2007 – anno in cui partecipò alla Biennale di Venezia nel padiglione dell’Azerbaijan; nell’edizione 2013 era invece tra gli artisti di Love me, Love me not organizzato dalla Yarat Foundation di Baku – esplora il complesso rapporto tra tradizione e modernità partendo dalla riflessione sulla forma e sul significato degli elementi decorativi. Rompere con la tradizione significa anche trovare una connessione tra i pattern del suo paese (nel 2010 l’arte tradizionale della tessitura del tappeto dell’Azerbaijan è stata inclusa nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco) e quelli provenienti da differenti aree geografiche del mondo: Perù, Cina, Iran, Caucaso. Per farlo, l’artista azero non può che operare una destrutturazione. L’elemento viene isolato e attraverso il disegno realizzato al computer acquisisce un connotato tridimensionale, come si vede in opere come Just Emptiness (2014), Invert (2014), Stickiness (2013), Peace of tradition (2012), tra quelle esposte in occasione della sua prima personale italiana Faig Ahmed. Omnia Mutantur, Nihil Interit alla galleria Montoro12 Contemporary Art di Roma (fino al 24 aprile).

Attraverso la manipolazione digitale si introduce l’elemento tridimensionale che proviene dalla sua formazione in scultura alla Azerbaidjan State Academy of Fine Arts. Quali sono i limiti del concetto di scultura tradizionale da cui prendere le distanze?
L’Accademia di Belle Arti dell’Azerbaijan è una scuola ancora molto tradizionale, mi ha permesso però di pensare lo spazio in 3D. Con i tappeti la tridimensionalità può essere vista come uno sviluppo della tradizione stessa, intendendo non solo l’esecuzione del tappeto in quanto prodotto artigianale, ma un aspetto più concettuale. La tradizione è un qualcosa di molto forte che appartiene ad ogni paese ed è assorbita all’interno della società stessa. Per i tappeti si tratta anche di identità. All’interno del «sistema-tappeto» sono minime le modifiche in termini di foggia o colori. Introdurre l’elemento in 3D rappresenta una rottura. Nel mio paese non si accettano facilmente questi cambiamenti. Non mi riferisco tanto a chi abita a Baku, che è la capitale del paese ed è una città multiculturale, quanto alle persone che stanno nei piccoli villaggi come Bulbule, uno dei centri di tessitura. Qui, anche dare precise istruzioni sulla realizzazione dei tappeti non è facile, perché in Azerbaijan sono soprattutto le donne a tesserli e per spiegare loro le mie idee devo rivolgermi agli uomini del villaggio, ai loro fratelli o mariti.

Faig Ahmed, PEACE OF TRADITION 2, 2012
Peace of Tradition 2, 2012

L’arte del tappeto con il suo apparato tecnico, simbolico, ornamentale, appartiene da secoli alla cultura azera. In opere come «Tradition in pixel» e «Ledge, Rapture, Oiling» si arriva quasi a una loro dissacrazione. C’è una componente contestataria nei confronti di un paese che affonda le sue ricchezze nel petrolio e nel gas, il cui regime politico è ufficialmente democratico, ma che limita la libertà civile dei cittadini?
Parlare di tradizione vuole dire comunque confrontarsi – ovunque – con il sistema sociale contemporaneo. L’Azerbaijan è un paese ricco in confronto ad altri dell’ex Unione Sovietica e la democrazia è differente da quella in Kazakistan, Uzbekistan e anche Ukraina, che è il paese più vicino all’Europa. Ora non vedo più la televisione, perché sono convinto che il 90% delle cose che si sentono siano bugie – non solo nel mio paese, in tutto il mondo – ma penso anche che la situazione in Azerbaijan sia migliore di come viene descritta. I problemi non sono tanto politici, quanto sociali. È in atto un lento processo per cambiare la mentalità delle persone e affermare i diritti umani, i diritti delle donne. L’Azerbaijan è più veloce degli altri paesi ex sovietici: sta cercando di confrontare le tradizioni europee con le proprie. Molti problemi vengono esposti, affrontati e risolti dagli abitanti stessi. È importante che ci sia consapevolezza e partecipazione. Alcuni giovani, ad esempio, studiano in Europa e poi rientrano nel paese, portando con loro nuove idee. Ci vuole tempo per far accettare i cambiamenti.

In un’intervista lei ha affermato che l’origine del suo interesse per la manipolazione del pattern trae origine da un episodio avvenuto in giovinezza, quando tagliò il tappeto che era nella stanza e ricompose i pezzi accostandoli tra loro con libertà…
All’epoca avevo nove o dieci anni. Non è stato rispettoso quello che ho fatto: anche se per gioco, ho creato una rottura con la tradizione. Sapevo che quel tappeto era prezioso per la mia famiglia. Credo che fosse appartenuto a mia nonna – per tradizione i tappeti passano di mano di madre in figlia. So di sicuro che era mia madre, pur avendo degli inservienti, che lo puliva e ne aveva cura. Ma io l’ho fatto a pezzi! Non fui punito, però furono tolti tutti i tappeti dalla mia stanza. Nelle case azere la loro presenza è particolarmente importante soprattutto in inverno. Insomma, da bambino ho oltrepassato certi confini. Ciò che faccio oggi è diverso, ma forse ha origine in quell’impulso, è qualcosa di inconscio.

L’ossessività della rappresentazione ornamentale rischia di scivolare in un’estetizzazione fine a se stessa…

La questione non è relativa all’aspetto ornamentale. L’elemento decorativo ha bisogno di stare in armonia con un altro elemento simile e richiede più silenzio e ordine. Non credo che un mio tappeto possa essere messo facilmente sul pavimento e diventare parte della decorazione di un interno. Ha bisogno di attenzione. Non deve essere bello, o meglio se anche lo fosse non è questo l’aspetto determinante. Uso gli stessi materiali e lo stesso tipo di telaio con cui venivano fatti i tappeti centinaia di anni fa, anzi di più considerando che i primi furono realizzati 3500 anni fa in Asia Centrale. Per centinaia di anni non è mai cambiato nulla, io invece ricorro alle nuove tecnologie, utilizzando un programma 3D per far uscir fuori un elemento che già appartiene al tappeto, per mostrarlo in un’altra maniera. Uso vecchi pattern, così antichi che, nel tempo, hanno perso il loro significato simbolico specifico. Resta però importante la lettura che ne dà il pubblico.

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Dettaglio di un’opera di Faig Ahmed (foto Manuela De Leonardis)

L’Heydar Aliyev Center di Baku, firmato da Zaha Hadid, è il simbolo di un paese in trasformazione in cui dagli anni ’90 ad oggi l’arte contemporanea ha avuto un forte impulso. Nella prossima Biennale, l’Azerbaijan sarà presente con due collettive: «Beyond the Line» e «Vita Vitale». Gli artisti dunque godono del sostegno dello stato e possono esprimersi liberamente?
L’Heydar Aliyev è più un punto di riferimento per far conoscere l’arte internazionale a un pubblico locale, non è tanto un luogo espositivo per gli artisti azeri che pure vengono supportati. Esistono anche realtà come Yarat, che è un’organizzazione non profit di cui faccio parte. Ma la questione non è tanto supportare gli artisti, quanto educare il pubblico all’arte contemporanea.