Lo scorso ottobre, il Tokyo International Film Festival ha premiato, nella sezione dedicata ai film di casa, Japanese Cinema Splash, il cineasta Hirobumi Watanabe per il suo ultimo lavoro, Cry. Watanabe è diventato una sorta di habitué alla manifestazione della capitale, dove aveva debuttato e si era fatto conoscere nel 2013 con And the Mud Ship Sails Away. Cry continua ed in qualche modo estremizza il discorso artistico/cinematografico portato avanti dai fratelli Watanabe, a Hirobumi come regista si affianca infatti quasi sempre nei suoi lavori anche il fratello Yuji, come autore delle musiche, ma un po’ tutti i membri delle loro famiglie sembrano essere impegnati in queste produzioni dal tratto foremente indipendente, quasi artigianale.

QUESTO GRUPPO di lavoro, in cui eccelle anche il direttore della fotografia e cameraman Woohyun Bang, ha saputo creare un cinema, solitamente filmato in bianco e nero, tanto austero nella messa in scena, quanto semplice e quasi banale nei temi trattati, la quotidianità della vita densamente spopolata delle campagne giapponesi, il tutto accompagnato qua e là da accenni di un particolare senso dell’umorismo.
Qualcuno ha tirato in ballo il nome di Jim Jarmusch, ma il cinema dei Watanabe è abbastanza diverso da quello del regista americano. Molto spesso quasi privo di dialoghi, i personaggi e le situazioni presentate sono sovente immersi nella monotonia dei gesti quotidiani di una vita ai margini della società, che sia lavorare in una piscina o in una stalla per prendersi cura delle vacche o dei maiali. Proprio con il grugnire dei suini inizia Cry, film che è diviso in sette parti, i sette giorni della settimana, dove vediamo il nostro protagonista, il regista stesso, muoversi dagli animali alla cucina, dove mangia assieme alla nonna, o durante le lunghe camminate nella campagna. Ciò che colpisce di questa pellicola, ma si potrebbe dire lo stesso anche degli altri lavori dei fratelli giapponesi, è la bellezza delle immagini ed il loro contrasto con il soggetto filmato.

LAVORI altamente antispettacolari e privi di qualsivoglia «intrattenimento», i film dei Watanabe non sono una facile visione, e non sempre risultano riusciti, bisogna un po’ essere dell’umore giusto per affrontarli e gustarli pienamente, abitano cioè quella zona abbastanza grigia ed indistinta che sta fra la riuscita artistica e il tentativo amatoriale. Detto questo, a lungo andare l’attenzione dello spettatore finisce per focalizzarsi inevitabilmente sull’immagine dell’inquadratura e tutto ciò che essa contiene: i campi, il rumore del vento sui tralicci che si stagliano nella pianura o il rumore aggressivo dei maiali. In questo senso il sound design e la musica giocano un ruolo fondamentale per la ricezione dell’opera, le lunghe camminate nei campi diventano allora quasi un qualcosa di ipnotico che si mette in risonanza con la monotonia ed il tedio della vita quotidiana dell’uomo e del paesaggio circostante.
L’opera dei Watanabe è anche un’esplorazione del paesaggio e della vita non urbana giapponese, i campi, il lavoro nelle stalle, mai romanticizzato per altro, ma anche il paesaggio e la vita di provincia dove spesso vivono moltissime persone anziane, ecco allora il rapporto fra il protagonista e la vecchia nonna con cui quotidianamente divide i pasti.

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