Nel 2000, in occasione della mostra Le jardin, curata da Laurence Bossé, Carolyn Christov-Bakargiev e Hans Ulrich Obrist all’Accademia Francese di Villa Medici a Roma, Marisa Merz espone sul prato di fronte alla Villa un violino di cera. L’opera viene ritirata qualche giorno dopo l’inaugurazione per evitare che il sole romano la danneggi irrimediabilmente. In quella scelta così singolare, e dalle conseguenze prevedibili, di esporre un materiale tanto delicato alla forza delle intemperie è racchiuso forse tutto il pensiero e lo spirito di quest’artista, scomparsa a Torino, sua città natale, all’età di 93 anni.

MARISA MERZ aveva tenuto la prima mostra personale nel suo studio nel 1966 presentando una serie di sculture composte di lamine di alluminio dalle forme irregolari e mobili. Era sposata del 1950 con Mario Merz e alcuni esemplari di questi suoi primi lavori sono stati documentati nella cucina della loro casa, accanto ai numeri di Fibonacci del marito, perfettamente integrate in un panorama privato e familiare. Le stesse opere sono presentate a Torino, nel giugno del 1967, alla galleria di Gian Enzo Sperone in una mostra personale che sancisce l’inizio ufficiale della sua carriera.
Tommaso Trini, che recensisce la mostra sulle pagine della rivista Domus, descrive queste sculture «luccicanti e opache, turgide e schiacciate, pendenti dal soffitto e aggregate per terra, in un ordine effimero che gli toglie ciò che ogni opera presuppone, l’inalterabilità». «Nell’immagine non riconoscibile che l’artista ci offre, – scrive Trini – il disordine si accompagna all’assenza dichiarata di controllo».

IN QUEGLI ANNI, in cui il linguaggio del contemporaneo si divideva sostanzialmente tra l’assertività delle immagini della Pop Art e il distacco delle formulazioni astratte del minimalismo (le mostre di Dan Flavin e Tom Wesselmann avevano preceduto quella di Merz proprio da Sperone negli spazi di via Cesare Beccaria), l’opera di Marisa Merz non poteva che preannunciare una nuova via, quella che di lì a poco l’avrebbe condotta, unica donna, a lavorare accanto agli artisti dell’Arte Povera.
Nell’ottobre del 1968 Marisa, infatti, viene invitata a prendere parte alla mostra Arte Povera + Azioni Povere, curata da Germano Celant ad Amalfi. Con lei espongono il marito Mario Merz, Giuseppe Penone, Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Gilberto Zorio, Jannis Kounellis, Emilio Prini, Michelangelo Pistoletto e Pierpaolo Calzolari. Per l’occasione Marisa Merz presenta sulla spiaggia di fronte agli antichi Arsenali un lavoro realizzato con coperte arrotolate e tenute insieme da fili di rame o scotch, e alcuni oggetti legati all’infanzia della figlia Beatrice fatti di fili di nylon, rame o lana.

CON QUESTI PRIMI LAVORI, e poi le successive sculture realizzate sempre con il nylon e con la cera, l’idea di variabilità e mobilità dell’immagine, di crescita irregolare e caotica della forma, già presente nelle prime opere in alluminio, si incarna nell’uso di materiali duttili e leggeri, talvolta deperibili, che incarnano con la loro sola presenza un’idea di fragilità, che rispecchia la dimensione stessa dell’esistenza.
Questa unione tra tempo dell’opera e tempo della realtà viene ribadita dall’artista in un’azione eccezionale che realizza a Roma per la galleria L’Attico di Fabio Sargentini nel febbraio del 1970. A bordo di un aereo Cesna, che parte dall’aeroporto dell’Urbe, l’artista comunica a terra lungo tutto il tragitto di volo le coordinate di velocità di navigazione e altitudine che vengono riportate da Sargentini su un grafico. Il disegno finale del percorso viene esposto nella galleria su uno dei tavoli di ferro che compongono la mostra, insieme ad altri oggetti già proposti ad Amalfi.

DA QUEL MOMENTO, e lungo tutti gli anni Settanta, le sue mostre si configurano spesso come raccolte di lavori eseguiti singolarmente in tempi diversi. Il passato e il presente si uniscono in insiemi vari di opere che finiscono con il comporre una sorta di collezione e catalogo di gesti e azioni. Un succedersi di gesti e di azioni che finiscono con l’incarnare il procedere stesso della vita.
Da allora Marisa Merz ha esposto nelle rassegne e nei musei più importanti del mondo: dalla Biennale di Venezia (dove è presente la prima volta nel 1972 e dove le viene conferito nel 2013 il Leone d’oro alla carriera) a Documenta 7 curata da Rudi Fuchs a Kassel nel 1982 (dove espone insieme a Meret Oppenheim), dal Pompidou di Parigi al Metropolitan Museum di New York. Il suo lavoro, insieme a quello di alcune artiste più o meno sue coetanee come Louise Borgeois, Carla Accardi ed Eva Hesse ha aperto la strada a molti successivi sguardi e sensibilità femminili nel campo dell’arte.
Nelle sue tessiture fitte e apparentemente caotiche di fili di nylon, con cui creava immagini tanto semplici quanto incisive, così come negli irregolari ma incredibilmente incisivi ritratti e autoritratti dipinti degli anni Ottanta o in quelli deformi e delicati delle piccole teste in creta, resina, terra cruda o in bronzo degli anni recenti, l’artista ha dato forma a un mondo fragile e impermanente ma sempre pronto a trasformarsi in qualcosa di nuovo e inaspettato, come un violino di cera al sole.