Quando Valerio Calzolaio mi disse che stava scrivendo un libro sulle isole-carcere pensai a una stravaganza. Quando, alla fine, ho letto il libro sull’argomento e che qui vengo a consigliarvi caldamente (Isole carcere. Geografia e storia, Edizioni Abele, pp. 240, euro 23) ho capito che quel soggetto invece era una storia di straordinario interesse di cui noi tutti sapevamo poco.
In ogni senso: sia perché non avevamo idea di quante fossero, dove collocate, chi ci era finito e come ci si viveva. Era che – soprattutto – noi non avevamo riflettuto su quanto è stata costante e diffusa questa particolare cattiveria dell’umanità, ognuno pensando solo ai casi conosciuti del proprio paese, non al fatto che la prigione è per l’essere umano una idea centrale, una vocazione generalizzata. Che accomuna e rende simili i popoli attraverso i millenni. Io di questa «scoperta» sono rimasta – confesso – impressionata.

NON PERCHÉ IGNORASSI di quanti orrori sono stati, e sono tuttora, capaci gli umani, ma perché questo di condannare i trasgressori delle regole della propria comunità a un doppio isolamento è particolarmente crudele: perché chi della privazione di rapporti umani diventa vittima resta non solo fisicamente distante da tutti, ma anche psicologicamente, come se, sebbene vivo, sia obbligato a sentirsi morto.
Può darsi che esser chiuso a Regina Coeli avendo attorno la vivace Trastevere sia più straziante proprio perché la vita di cui sei privato ti ferve intorno e tu ne sei separato solo da un muro. Ora ho capito che può esserci di molto peggio: esser così isolati, non solo da un muro ma anche da un mare, da non poter più percepire il mondo, condannati a vivere sebbene in una condizione che ti fa sentire come se la vita non ci fosse più.

IL FENOMENO è stato storicamente così massiccio perché non c’è popolo che non abbia praticato questa tortura dell’isola-prigione (salvo quelli in territori privi del mare di laghi e di fiumi e che tuttavia si sono ingegnati a dotarsi di qualche barbarie analoga). E però ben meno grave se penso a Cristo si è fermato ad Eboli, e cioè al confino fascista nei territori meridionali dell’interno che ha consentito invece di conoscere un pezzo di realtà prima ignorata).
Le isole prigioni – ci dice Calzolaio – sono state, alcune sono ancora, duecentosettanta. Il record sembra raggiunto dall’Italia, mi pare circa quaranta, subito seguita dalla Grecia. Dipende certamente dal fatto che da più millenni ne conosciamo la storia, perché da più tempo civilizzate, perché questi paesi sono stati precoci nel dar vita a comunità organizzate e regolate, proprio per questo più desiderose e alacri nel togliere di mezzo chi con quelle regole non era d’accordo (e così ci mandarono pure le adultere).

DIPENDE CERTO anche dal fatto che noi abbiamo molto mare intorno e numerose isole: un terzo delle coste mediterranee sono infatti quelle delle isole. E comunque anche agli altri è presto piaciuta questa nostra idea: in Australia per ottant’anni 160mila persone sono state rinchiuse nel gulag dell’isola Grandina, e negli Stati Uniti crearono Alcazar nell’Atlantico, che conosciamo meglio per via del cinema. Gli inglesi invece non ne hanno fatte tante perché presto scoprirono che gli erano assai più utili i giovani africani delle colonie in grado di lavorare la terra in questi speciali territori. E così accadde che nel Seicento si ritrovarono senza sufficienti prigioni, quelle per gli africani essendo non molto diverse dalle carceri, ma ufficialmente non tali.
Dal libro apprendiamo anche molte notizie relative alle isole in sé, non proprio tutte per fortuna, diventate poi carceri.

LA PIÙ ANTICA È IN AFRICA, è l’isola di Madagascar (è anche la più grande, ben 587 km quadrati e risale a 85/90 milioni di anni fa; la più giovane è invece Tonga, nata dall’eruzione del vulcano Hunga Ha’apai solo nel 2015; la più estesa è la Groenlandia, danese, nel mare del nord; mentre la più grande lacunare è Samosir, dentro Sumatra, Indonesia; e la più grande fluviale è Banaral, in Brasile; la più piccola in mare la Bishop Rock, nelle Shilly, solo 0,000578 km quadrati.
In Italia quasi tutti conosciamo Ventotene perché è lì, si dice, che è nata l’Unione europea, naturalmente una bugia perché quella istituzione cui abbiamo dato i natali non ha quasi nulla di quella immaginata e auspicata da Spinelli, Colorni e Rossi che lì hanno abitato, assieme a Pertini, Amendola, Scoccimarro, Terracini, Basso e anche Di Vittorio e parecchi altri, per fortuna in condizione di confinati, isolati ma non reclusi.
A vedere i documentari che sono stati girati in seguito, si potrebbe pensare che questa speciale pena assai praticata dai fascisti non fosse poi tanto malvagia: così, per esempio, mi è parso quando ho visto il bellissimo filmato su Ustica dove trascorse qualche tempo Gramsci e, con altri, anche Bordiga. Finalmente tutti d’accordo avevano creato una scuola dove insegnavano a leggere e a scrivere ai bambini dell’isola; e poi la sera discutevano fra loro. E suscita persino qualche invidia pensare a Ventotene con tutti quegli straordinari personaggi.
Non è così, ovviamente: esser tagliati fuori dagli avvenimenti, separati, in un tempo così carico di accadimenti decisivi, è stato tremendo. Ce lo raccontano molti di loro, ricordo in particolare il bel libro di Giorgio Amendola, Un’isola.
Dal volume di Calzolaio ho anche scoperto che un terribile carcere sorgeva pure a Favignana, l’isola dove da due anni è diventato sindaco Francesco Forgione, ex manifesto (ma si può essere ex del manifesto?) e per un tempo anche mio redattore capo quando, per due anni, ho diretto il settimanale di Rifondazione comunista, Liberazione.

CHIUSA LA PRIGIONE, pure quest’isola si è aperta come quasi tutte le altre al turismo, e però Francesco mi racconta quanto sia difficile la sua vita alle prese con un comune dove d’estate si è invasi da moltitudini e si è dotati di soli tre vigili urbani. Un inferno!
Uno dei peggiori orrori perpetrato nel campo delle isole-prigioni è stato opera di noi italiani «brava gente»: in territorio coloniale, nell’isola eritrea di Nacra nel mar Rosso. Vi abbiamo rinchiuso migliaia di poveri africani che cercavano di liberarsi dalla nostra oppressione.
Queste carceri insulari stanno oggi finalmente diventando musei. Ma – come scrive l’autore – il mondo è ben lungi dall’essersi liberato di crudeli modalità di risoluzioni dei conflitti fra umani.