Tanti anni fa, nella memoria di un vecchio spettatore, il mito di Alcesti e la tragedia di quella regina che avrebbe ceduto la propria vita in cambio di quella del marito (se non arrivasse il prode e affaticato Ercole a salvarla, sconfiggendo la Morte) rivelarono in Italia, dalla Galleria nazionale di Valle Giulia, Eugenio Barba e il suo teatro. Feräi era il titolo con cui riviveva la tragedia di Euripide. Più che l’intreccio del racconto, a impressionare il pubblico furono la voce e il corpo degli attori, gli straordinari «commedianti» dell’Odin Teatret, attorno ai quali da subito divamparono nuove e moderne mitologie. Una vera epifania.

 
Tocca ancora alla sfortunata e troppo generosa Alcesti (alle Murate fino al 26 ottobre), sancire ora la forza del teatro di Massimiliano Civica, di cui pure si sono visti negli anni diversi spettacoli, alcuni bellissimi come Il mercante di Venezia (un laico «oratorio» che strappava Shylock fuori da tutti i luoghi comuni), altri forse meno riusciti come quel recente Sogno shakespeariano che sembrava vittima di troppi linguaggi. Ma stavolta l’impianto concentrico della drammaturgia, dei corpi e delle voci, riesce perfettamente. Il segno del’oriente e della sua spettacolarità assorbe e rende assoluto questo mito che suona oggi tanto prossimo e insieme tanto lontano. A cominciare dalla cornice ambientale: la sala ottagonale delle vecchie carceri fiorentine delle Murate accoglie una ventina di spettatori, su cui si affacciano i tre ordini di balconate sovrastanti con tutte le porte di quelle che erano le celle. Luogo di espiazione e di meditazione, come quella reggia in cui si “gioca” con la vita umana, e della quale vediamo solo il tardo retaggio nei due monumentali candelabri, senza fiamma né candele.

 
A rappresentarci la storia di Alcesti e di Admeto, dei loro parenti e della loro servitù (cui amor d’antropologia lascia libero eloquio una volta con l’accento sardo e poi con quello veneto), e poi dell’infaticabile Ercole, solo due attrici, chiamate a una prestazione davvero straordinaria. Rivestono tutti i personaggi le bravissime Daria Deflorian e Monica Piseddu, cambiando maschera e qualche periferico elemento del vestiario (su un completo di casacca e jeans) per dare vita, e voce, a tutte quelle creature, d’amore e di lotta. La traduzione e l’adattamento firmati dallo stesso Civica, rendono più reali e vicini alla nostra sensibilità, spogliando la vicenda di tutti i fronzoli, e soprattutto di ogni naturalismo. Anzi i tempi in cui le due attrici si cambiano la maschera e la cintura o la sciarpa, assumono il compito di camera di decompressione rispetto alle parole immediatamente successive o precedenti. E il testo liberato a puro suono fuori di costumi e «interpretazione», genera liberi processi che possono anche allontanarsi dalla storia di Alcesti, ma che certo danno al teatro uno spessore e una partecipazione inusuali. In quei passi calcolati (come nella misura di vesti ed eloquio) si conforma l’aura di una laica ritualità: il mito, di Alcesti e degli altri eroi classici torna, ma avanza verso il futuro. Con la musicalità insufflata nelle mani e nell’orecchio da Monica Demuro, e un brusco risveglio finale con Lucio Dalla.