Il Timeo è forse il dialogo platonico che più ha esercitato influenza nel corso della cultura occidentale. Non a caso Raffaello nell’affresco della Scuola di Atene dipingerà Platone con in mano il Timeo. Ma è anche uno dei dialoghi più difficili, soprattutto per la parte riguardante la formazione dell’universo e degli enti che lo popolano, uomo compreso nella sua dimensione fisica e psichica. Un contributo di prim’ordine alla comprensione di esso è ora fornito dal volume della Fondazione Lorenzo Valla (Timeo, testo, traduzione e commento a cura di Federico M. Petrucci e introduzione di Franco Ferrari, Mondadori, pp. CCXXIII-499, e 50,00). L’edizione del testo greco è corredata da un apparato critico fondato su scelte ben argomentate anche in base alle ricognizioni più recenti della tradizione manoscritta e della tradizione indiretta, soppiantando la vecchia edizione oxoniense di John Burnet. Il vasto corredo di note e l’introduzione, quasi un libro a sé stante, forniscono tutti gli elementi per la comprensione del testo, prospettando cautamente soluzioni proprie, ma sempre documentate col riferimento a interpretazioni alternative e un uso accurato della imponente letteratura secondaria.
Oggetto di dispute fin dall’antichità fu lo statuto della parte prevalente del testo, l’eikòs mythos, giustamente tradotto con «racconto verosimile» in modo da togliere eventuali aloni negativi alla parola ‘mito’, ma conservando un rapporto positivo di somiglianza con la verità. Si tratta della narrazione di un evento reale, la formazione del mondo sensibile a opera di un demiurgo o artefice divino operante secondo i modelli forniti dalle idee incorporee puramente intelligibili? O il demiurgo è solo una figura metaforica, introdotta a puro scopo didascalico, del mondo delle idee, che sarebbe l’autentica causa della produzione dell’universo anche in quanto causa efficiente? Il dilemma si è riproposto sino a oggi e una certa propensione manifesta Ferrari per l’interpretazione metaforica, che sarebbe confermata anche dall’assenza di ogni riferimento all’appartenenza del demiurgo a uno dei due ordini ontologici, né tra le cose che sono sempre, cioè le idee, né tra quelle generate. In questa prospettiva il mondo delle idee sarebbe una totalità vivente, che in quanto tale non può non agire, e il demiurgo sarebbe solo una metafora, non un principio ontologico autonomo. Tale interpretazione tende a spostare Platone verso il più tardo platonismo di Plotino, per il quale le cause intelligibili agiscono per il solo fatto di essere ciò che sono. Confesso che, fuorviato da un pizzico di materialismo, non riesco a comprendere come idee incorporee puramente intelligibili possano essere non solo cause nel senso di modelli, ma anche cause produttive delle cose sensibili. Che la copia possa esistere solo se esiste il modello non comporta necessariamente che sia il modello a produrre la copia. Timeo, dopo aver avanzato la tesi che tutto ciò che è generato richiede una causa, non accenna alla totalità delle idee, ma fa subito riferimento a una causa qualificata grammaticalmente con espressioni al maschile, parlando dell’aristos, della più eccellente tra le cause, immediatamente identificata con le figure, anch’esse al maschile, del demiurgo e del padre. Erano questi i due modelli che agli occhi di Platone potevano apparire plausibilmente esplicativi del processo di generazione del cosmo e della sua struttura.
Non è sicuro che Platone disponesse di una spiegazione in termini di sole idee. A ciò non si può obiettare che l’argomento era troppo difficile per consegnarlo alla scrittura, dato che dialoghi come il Parmenide o il Sofista presentano per iscritto tesi certo non facili da comprendere per il primo venuto. Forse Platone non aveva un sistema compatto, ma era consapevole anche di problemi aperti e non è quindi un caso che più volte in questo dialogo insistesse sui limiti delle possibilità conoscitive umane, invitando a non cercare oltre, e ricorresse quindi a un racconto che, ripercorrendo i ragionamenti e le operazioni compiute dal demiurgo divino nel costruire un universo ordinato, non poteva certo pretendere di riflettere automaticamente la verità, ma solo uno statuto di verosimiglianza. Si può ricordare che nelle Leggi agli atei che sostengono che le cose più importanti sono generate dalla natura e dal caso e non dalla techne, Platone contrappone la tesi della priorità della tecnica e dell’intelligenza e quindi dell’anima, considerata prima fonte della genesi delle cose. La figura del demiurgo divino consentiva di introdurre un altro tipo di causa, come richiedeva anche il Fedone, cioè la causa finale, che spiega perché per le cose è bene essere così come sono: il demiurgo infatti, dotato di volontà buona e guardando al modello perfetto delle idee, produce il miglior ordine possibile.
Se l’interpretazione del mito in termini puramente metaforici presenta difficoltà, non è da meno l’interpretazione letterale. Una delle difficoltà è data dal problema del tempo. Nel dialogo il tempo è presentato come anch’esso generato simultaneamente alla generazione dei corpi celesti, i cui movimenti consentono di misurarlo, scandendolo in giorno e notte, mesi e anni. Ciò fa del tempo un’immagine mobile dell’eternità procedente secondo il numero, quanto più possibile simile all’eternità propria dei modelli costituiti dalle idee. Platone sa che senza rendercene conto riferiamo scorrettamente l’era e il sarà anche a ciò che propriamente è, ma questo non lo porta ad affermare esplicitamente che la generazione del cosmo ha luogo in una sorta di istante atemporale. Se così fosse, si arriverebbe ad attribuire già a Platone la tesi aristotelica dell’eternità del mondo, ma allora che senso avrebbe dire che esso è generato? La forma narrativa presenta i pensieri e le azioni del demiurgo come una sequenza di operazioni successive, le quali agiscono su un ricettacolo, una sorta di sostrato insieme spaziale e materiale, quindi preesistente alla generazione del cosmo.
Questa nozione di ricettacolo è uno dei punti più oscuri del dialogo e occorre dare merito ai curatori di averla illustrata sotto tutti gli aspetti. Mi pare chiaro che l’introduzione del ricettacolo sia dovuta ancora una volta alla forza rivestita per Platone dall’analogia con la tecnica. Nel Gorgia l’attività dell’artigiano è descritta come un guardare a modelli, in base a cui conferire ordine a un materiale preesistente non ordinato. Ma la preesistenza di una condizione precosmica non rinvia a una priorità temporale rispetto alla generazione stessa del tempo? A ciò si è tentato di rispondere che tempo in senso proprio è solo quello misurabile, ma allora che cos’è il prima e dopo antecedente a questo tempo, non è anch’esso tempo, benché non misurabile? Questa pare la difficoltà irrisolta contro cui si scontra l’ interpretazione letterale del mito. Essa però diventerà dominante soprattutto nella cultura ebraica e cristiana, quando si ravviserà una somiglianza tra il mito platonico e il racconto biblico della creazione, concepita però come creazione dal nulla. Si può ricordare che nel II secolo a.C. un ebreo di Alessandria, Aristobulo, sosteneva che Platone aveva letto il libro della Genesi. Ma come poteva leggerlo Platone, che ignorava l’ebraico, se era stato tradotto dopo la sua morte, nel III secolo a.C. ad Alessandria? La risposta era che antecedente a questa esisteva una traduzione più antica, tesi condivisa poi anche da Padri greci della Chiesa come Giustino, Clemente Alessandrino ed Eusebio di Cesarea.
Una reviviscenza recente della interpretazione letterale si è avuta nel quadro della tesi della priorità delle dottrine non scritte di Platone rispetto ai dialoghi, avanzata nella scuola di Tubinga e ripresa in Italia da Giovanni Reale, per il quale il demiurgo non è una figura metaforica, ma un ente metafisico reale, cioè Dio, intelligenza suprema in rapporto con l’idea del bene, identificata con l’uno, mentre l’altro principio sarebbe la diade indefinita. La conseguenza è l’attribuzione a Platone di un monoteismo semicreazionistico, la più alta forma di creazionismo guadagnata dal pensiero ellenico. Ma anche Reale non affrontava le difficoltà poste dal problema del tempo, né teneva conto dello statuto di racconto verosimile del Timeo.
La fortuna di questo dialogo non si arresta qui. Già nel proemio compaiono riferimenti non solo alla misteriosa Atlantide, ma anche all’antico Egitto, rispetto a cui i Greci, la cui memoria storica è periodicamente azzerata da catastrofi naturali, risultano ‘sempre giovani’, affermazione che sarà usata nel corso dei secoli a conferma dell’anteriorità delle sapienze barbare rispetto alla filosofia greca. Ma aspetto decisivo del Timeo in età moderna sarà soprattutto la descrizione della formazione dei quattro elementi del cosmo, terra acqua aria fuoco, a partire da triangoli che combinati danno luogo ai quattro solidi regolari corrispondenti a essi. Un apparato specifico di note è dedicato a illustrare con precisione questi difficili passi matematici, che saranno visti come espressione anticipata di quella matematizzazione della fisica che costituisce un tratto saliente della scienza moderna. Ciò già in Keplero e Galileo, che nel Saggiatore parlerà dell’universo come di un libro scritto in lingua matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, sino a scienziati più recenti, tra i quali Heisenberg, giustamente ricordato nell’introduzione, secondo il quale le particelle del Timeo non sono sostanze, ma forme matematiche, proprio come nella fisica dei quanti, anche se in modo ben più complicato. Sono accostamenti arditi, ma che documentano le continue suggestioni di questo dialogo, che smentisce l’ immagine stereotipa di un Platone proteso soltanto verso le idee e scarsamente interessato al mondo percepibile nella straordinaria varietà dei suoi aspetti.