Negli ultimi mesi dagli Stati uniti sono arrivate notizie insopportabili di famiglie migranti divise alla frontiera, come pure di tagli ai fondi destinati dalle Nazioni Unite ai profughi palestinesi per l’acquisto di beni essenziali come olio e farina, e di diverse altre alzate di ingegno razziste e purtroppo non più molto sorprendenti avviate dall’amministrazione super wasp di Trump. In questa temperie sociale grondante xenofobia (l’ultima sparata da campagna di mid termine è l’abolizione dello ius soli) è parso abbastanza strano, fatte le debite proporzioni, il comunicato recepito anche da qualche rubrica culturale nostrana sulla cancellazione da parte della «Association for Library Service to Children» dello storico premioletterario per l’infanzia «Laura Ingalls Wilder Award» questo perché la Ingalls, autrice e protagonista della saga letteraria per ragazzi Little House on the Prairie viene accusata di razzismo verso nativi e afroamericani.

LA SERIE TV
Quasi tutti ricordano la serie tv diretta prodotta e interpretata da Michael Landon, alias Pa Charles con zazzerone e bretelle, La Casa nella prateria, che prende spunto dal terzo libro della meno nota in Europa saga letteraria americana, quella incriminata, oggi ripubblicata in Italia da Gallucci. Il telefilm, riproposto a sua volta da alcuni mesi da Paramount Channel in diverse fasce orarie, si è sedimentato nei ricordi di chi è stato ragazzino negli anni Settanta e Ottanta e ha ben impresse, oltre al suono del corno nella sigla di apertura, le figure archetipiche del buon padre factotum, della madre devota, della figlia del ricco bottegaio con boccoli e perfidia di ordinanza ereditata dalla di lei madre: la pettoruta e biforcuta signora Oleson (l’attrice Katherine MacGregor, morta proprio pochi giorni fa).
La serie, con longevità da soap opera e cast che cresce e invecchia nel corso di oltre duecento episodi, nove stagioni e sei lungometraggi, affronta ogni tipo di tema sociale: adozione, violenza su donne e minori, alcolismo, razzismo, accoglienza, diversità, handicap, bufale scientifiche d’antan e mortalità infantile. Certo, il mondo di Walnut Grow appartiene ai Giusti, i pionieri nella fattispecie, che il cielo mette sempre duramente alla prova ma che con fede e pragmatismo risorgono più forti dalle loro tragedie, cavallette o lutti che siano. Michael Landon, che compare con ruolo da co protagonista per sette serie, mette al centro del telefilm la famiglia e la fede (la Scuola stessa è ospitata nei locali della Chiesa) ma la salvezza è appannaggio solo di chi ama il prossimo suo davvero come se stesso, senza distinzioni di razza, censo ed estrazione. I libri sono, al solito, un’altra cosa rispetto alla trasposizione televisiva, e a scriverli è stata, come si diceva, la stessa ragazzina pioniera della piccola Casa della prateria: Laura Ingalls Wilder che, come il suo alter ego televisivo con le trecce e i dentoni di Melissa Gilbert, era sveglia e portata per la scuola ma non poté nella realtà esercitare il mestiere maestra una volta sposata.
I libri, la vera Laura, ha cominciato a scriverli a sessant’anni, dopo aver perso tutto nella Grande Depressione, e con otto volumi di storie autobiografica ha servito a generazioni di giovani americani l’infanzia dei pionieri con contorno di aura mitica e molte edulcorazioni. Ne fa una disamina chirurgica, tracciando contestualmente la biografia della Ingalls e di sua figlia Rose Wilder Lane, il premio Pulitzer 2018 Caroline Fraser con Praire Fires- the American Dreams of Laura Ingalls , Metropolitan Books, che illustra come e perché la ragazzina della prateria abbia contribuito e plasmato il mito della conquista del West e reinventato la sua vita di frontiera, spietata e violenta, trasmettendola ai posteri come epica ed edificante. Un lascito con cui comunque l’immaginario nordamericano si trova a fare i conti. «Sia che amiamo Ingalls Wilder o la odiamo, dovremmo conoscerla … ogni americano – compresi i bambini che leggono i suoi libri – dovrebbe imparare la dura storia dietro il suo lavoro» dice la Fraser .
Nel racconto minuzioso e rassicurante delle attività quotidiane della famiglia Ingalls, i lavori di carpenteria di Pa registrati nei minimi dettagli, l’eterno alternarsi di stagioni oleografiche, frugali e odorose di legno dentro la casetta, di pasti a base di mais e carne bianca (una vita, anche nell’invenzione, noiosa solo un po’ meno di quella di Dorothy nel Kansas prima che il ciclone la trasportasse ad Emerald City) non mancano dettagli più scorretti, che poi sono quelli che hanno suscitato la censura; nel secondo libro della saga avvengono i primi incontri ravvicinati tra gli Indiani e gli Ingalls.

INDIANI
I nativi fanno paura e cattivo odore e Laura, le sue sorelle e sue madre temono ed evitano i loro sguardi su volti audaci, selvaggi e terribili. Arriva però solo dopo poche righe l’intervento di Charles a riportare ordine: ci sono Indiani buoni e Indiani cattivi, la terra in ogni modo appartiene ai nativi e l’odoraccio che aleggia su uno di loro, Laura ci arriva da sé, non proviene dalla pelle dell’Osage ma da quella di una puzzola non debitamente conciata, che si è legato sui fianchi. Nel telefilm il pater familias col sorriso sempiterno e commosso di Michael Landon si spinge più in là salvando la vita a un nativo e lo ricovera in casa sua, mettendosi così contro il vicinato benpensante. La stessa Laura adolescente, sempre nella serie tv, insegnerà il linguaggio dei segni a un ragazzino sordomuto nativo americano adottato da una famiglia di compaesani;ma il film tv, dice la Fraser nella sua opera di disvelamento della vita dietro la leggenda , è di fatto uno iperbolico spin off fantasy dei libri.
Nei romanzi i gridi di guerra che le tribù nemiche si rimpallano l’un l’altra in una notte di litigi intestini (al centro della discussione, si scoprirà poi, la scelta se uccidere o meno gli ignari coloni invasori) fanno rizzare il pelo al cane di famiglia anche Jack odiava gli Indiani e mamma disse che lo capiva e lacerano orecchie e serenità di tutti, come qualcosa di spaventoso e ingovernabile udì di nuovo quel suono terribile, Laura si sentiva come se stesse cadendo. Laura scrittrice ha un certo talento nel rappresentare la paura all’alba ha la bocca così secca dal terrore da non poter fischiare nemmeno se servisse a salvargli la vita.

LA FIGLIA ROSE
Laura Ingalls Wilder ha soprattutto una figlia, Rose, scrittrice, giornalista, biografa, teorica politica, il cui ruolo nella stesura dei libri e nella loro commercializzazione fu determinante e più vicino, sostiene Fraser , a quello di una ghostwriter che di una editor; l’unica figlia di Laura deve aver influenzato i testi della madre non solo perché abile scrittrice ma anche per ragioni riconducibile alla sua biografia e al suo temperamento. Rose per intenderci a quarant’anni era una delle autrici meglio pagate in America, era amica intima del Presidente Hoover (di cui è stata controversa biografa), Sinclair Lewis e di sua moglie Dorothy Thompson, da molti ritenuta la First Lady del Giornalismo Americano. Fu Rose Wilder , prossima agli 80 anni, a raccontare la guerra in Vietnam da inviata e dal punto di vista delle donne; quarant’anni prima aveva già prodotto un moderno reportage on the road delle sue peregrinazioni tra Francia e Albania a bordo di un’auto battezzata Zenobia, come la prima, unica e leggendaria regina di Palmira, la città carovaniera siriana oggi distrutta dall’Isis. Durante la seconda mondiale curò una rubrica settimanale sul Pittsburg Courier, rivista afro-americano pubblicata in Pennsylvania fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Una vita avvincente ma anche fitta di ombre e contraddizioni che la Fraser evidenzia e documenta restituendone un’immagine di venditrice con pochi scrupoli e non troppo attenta all’accuratezza storica dei fatti; ciò detto non sembra credibile che Rose abbia assecondato possibili istanze razziste materne, né tantomeno soffiato sul fuoco di veemenza anti nativa o antiafricana. Il fatto è che, seppure grandemente romanzata, la saga della prateria resta comunque la biografia di una donna nata nel Winsconsin nel 1867, che fino all’età dieci anni non conosceva il significato della parola recinto ( chissà che avrebbe pensato dell’idea di muri innalzati tra Stati confinanti).

PIONEER GIRL
Alle storia di Laura e Rose Wilder Lane passando proprio per la vicenda vietnamita della giornalista è dedicato il romanzo Pioneer Girl di Bich Minh Beth Nguyen, scrittrice e docente all’Università di San Francisco originaria di Saigon cresciuta e in Michigan; il libro è una storia di ispirazione autobiografica edito dalla Penguin, che ha per protagonista la giovane figlia di immigrati vietnamiti tenacemente refrattari ad ogni integrazione culturale che non sia la concessione all’occidentalizzazione dei menù del loro Asian buffet; la ragazza è ossessionata dalla saga della Casa nella Prateria e la trama della sua vita, che ha tratti si fa detective story sulle tracce di un cimelio di famiglia appartenuto alla stessa Rose Wilder Lane, è accompagnata dal parallelismo tra le vicissitudini dei pionieri nei processi migratori interni al Nord America nell’Ottocento e quelle degli immigrati asiatici negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

NUOVI PIONIERI
Di asiatici come nuovi pionieri del Nord America scrive anche Elaine Castillo nel denso e potente America is not the Heart, sempre edito da Penguin, storia di migranti filippini in California narrata dalla scrittrice esordiente ricorrendo, oltre alla lingua inglese, anche a termini spagnoli e delle lingue native delle Filippine: Tagalog, Pangasinan e Ilocano. L’America nella società degli immigrati filippini è povertà, ingiustizia e appunto «non è il cuore» anche se alla fine dei conti tutto diventa casa, anche la Bay Area; il titolo fa il verso a quello del romanzo semi autobiografico del filippino Carlos Bulosan dove si legge che L’America non è una terra di una razza o di una classe di uomini. Siamo tutti americani che hanno faticato e sofferto e conosciuto oppressione e sconfitta, dal primo indiano che offriva pace a Manhattan agli ultimi raccoglitori di piselli filippini … L’America è nel cuore degli uomini che sono morti per la libertà; è anche negli occhi degli uomini che stanno costruendo un nuovo mondo. Almeno fino a che il 14esimo emendamento ratificato nel 1868 rimane in piedi.