Cultura

Il miraggio del binario che corre verso l’infinito

Il miraggio del binario che corre verso l’infinitoL'opera di Dani Karavan al Meis – Foto di Marco Caselli Nirmal

Intervista Parla l'artista israeliano Dani Karavan, ospite al Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara con la sua installazione permanente. «L'Olocausto dei sinti e dei rom è poco conosciuto. Quelli che furono assassinati durante la seconda guerra mondiale poterono contare solo su fiori di campo come pietra tombale»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 24 gennaio 2020

«Ho tagliato un segmento di binario fuori uso e ho posizionato uno specchio lungo la sua metà in modo che il riflesso potesse creare un miraggio, moltiplicandolo. Due altre superfici specchianti, situate sulle pareti, rimandano a un’illusione di continuità, come se quel binario attraversasse il muro, viaggiando verso l’infinito. Sul muro, poi, scorre il video di un uomo che cammina costeggiando le rotaie fino a quando non svanisce, in lontananza. I binari ferroviari, per me, restano un simbolo potente dell’Olocausto e del trasporto forzato degli ebrei».

L’artista israeliano Dani Karavan (Tel Aviv, 1930) spiega così la sua installazione per il Meis (Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah) di Ferrara, «pezzo» di storia reinterpretata che va a completare il mosaico di 1938: l’umanità negata, il percorso immersivo permanente appena inaugurato: 45 minuti che partono dalla Grande Guerra per addentrarsi nel fascismo e nazismo, le leggi razziali, fino alla ricostruzione di una classe e l’esclusione sui banchi di scuola, la deportazione e i campi di sterminio. L’itinerario per i visitatori si conclude con l’articolo 3 della nostra Costituzione che istituisce la dignità sociale e l’uguaglianza di fronte la legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Dani Karavan – autore di memoriali come quello dei rom e sinti di Berlino, della camminata sui diritti umani di Norimberga e dell’omaggio monumentale a Benjamin di Portbou – è già stato ospite al Meis con l’esposizione Il giardino che non c’è.

Lei crede che l’arte possa svolgere un ruolo sociale e politico?
Ritengo che arte e politica siano intrecciate. Basti pensare a Guernica, è il più formidabile commento sulla guerra che esista. Il mio Way of the Human Rights a Norimberga ha cambiato completamente l’immagine della città. Era legata alle leggi razziali del regime nazista e ora è stata dichiarata dalle Nazioni Unite la città dei diritti umani.

Il percorso immersivo al Meis di Ferrara (foto di Marco Caselli Nirval)

Da dove nasce il suo interesse per l’Olocausto dei sinti e dei rom?
Di solito, lavoro su commissione (seguendo i miei ideali, naturalmente) e non per iniziativa personale. Il Memoriale di Berlino è nato dopo che i committenti (promosso dal governo tedesco e dalla Foundation Memorial to the Murdered Jews of Europe, ndr) avevano visto Way of the Human Rights. Come ebreo, ho pensato che fosse estremamente importante realizzare un monumento che commemorasse l’Olocausto dei sinti e dei rom (i nazisti li chiamavano con disprezzo zigeuner), soprattutto perché è meno conosciuto di quello ebraico. In quell’occasione, mi è stato suggerito anche il luogo, nel Tiergarten, molto vicino al Reichstag. Sapevo che migliaia di persone lo avrebbero attraversato ogni giorno, per andare dal Reichstag alla Porta di Brandeburgo. Era fondamentale porre un elemento che li costringesse a fermarsi per un momento: ho pensato che un bacino d’acqua sarebbe stato perfetto. I sinti e i rom che furono assassinati durante la seconda guerra mondiale potevano contare solo su fiori di campo come loro pietra tombale. Allora ho realizzato un triangolo di pietra nel mezzo del lago artificiale – in memoria di quello che erano stati costretti a indossare dai nazisti e vi ho posato sopra un fiore selvatico. Ogni giorno, alle 13, quel triangolo sprofonda in acqua e, risalendo, ospita un nuovo fiore, appena colto. Il monumento ha anche la sua colonna sonora: un violino suona una melodia scritta da un musicista romani. Viene riprodotta ininterrottamente: i visitatori si concentrano sull’ascolto, dimenticando i rumori della vita quotidiana.

Può dirci qualcosa sull’omaggio che ha reso a Walter Benjamin, a Portbou?
Passages è un progetto che mi è stato suggerito e che ho accettato perché è conforme alle mie convinzioni. È una grande scultura site-specific, situata nella cittadina di Portbou, in Spagna, dove Benjamin si suicidò sentendosi senza scampo dopo il tentativo di fuga dalla Francia nazista. Cercando il posto giusto per il monumento, sono andato in pellegrinaggio nel luogo in cui Benjamin aveva attraversato il confine e al cimitero dove è sepolto. Un giorno, mentre mi trovavo nei dintorni e guardavo il mar Mediterraneo, ho notato un mulinello nell’acqua sotto di me. Era come se la natura stessa volesse far parte del progetto e così ho scelto il sito. Anche la natura si era piegata a narrare la tragedia di quell’uomo. Tutto ciò che dovevo fare io era creare le condizioni affinché le persone potessero «leggerla». Ho scolpito un tunnel in acciaio che taglia la collina, vicino al camposanto. Ci sono delle scale che invitano a scendere per un incontro diretto, un faccia a faccia con le onde del mare sottostante. In fondo, su una parete di vetro, ho riportato le parole di Benjamin: «È più difficile onorare la memoria dei senza nome che quella di chi è famoso. La costruzione storica è dedicata alla memoria degli anonimi».

A proposito di arte e natura: nella sua infanzia, lei ha visto suo padre lavorare come capo architetto paesaggista di Tel Aviv. C’è qualche insegnamento rintracciabile nelle sue sculture, nei concetti che circolano nella sua produzione?
Sono cresciuto a Tel Aviv in una casa con un giardino, in cui coltivavamo ortaggi e alberi da frutta particolari, che all’epoca non erano comuni in Israele. Purtroppo, non ho imparato molto da mio padre sul giardinaggio e non riconosco le piante. Tuttavia, sento ancora la sua influenza quando entro in relazione con gli alberi. Non ne sradicherò mai uno e se un albero si dovesse trovare su un mio percorso artistico, cambierei progetto inventando un nuovo punto di vista: le persone potrebbero guardare quell’albero in modo diverso. Ho integrato la vegetazione nella maggior parte delle mie opere e spesso collaboro con architetti del paesaggio. Per il Monumento del Negev volli condividere il lavoro con mio padre, per Yad Lebanim-Gan Hameyasdim a Hedera ho lavorato insieme all’architetto Zvi Dekel e in Piazza della cultura, a Tel Aviv, ho coinvolto il paesaggista Lital Szmuk.

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