Il mio avatar ci salverà
Intervista Tracey Rose, l'artista sudafrica stasera sarà al Pac di Milano con la sua performance «Pussie with Dicks». «L'umorismo non è mai innocente, è un modo per affrontare il trauma»
Intervista Tracey Rose, l'artista sudafrica stasera sarà al Pac di Milano con la sua performance «Pussie with Dicks». «L'umorismo non è mai innocente, è un modo per affrontare il trauma»
Ha rasato tutti i peli del suo corpo di fronte all’occhio algido della telecamera di un circuito della sorveglianza. Ha urinato sul muro che divide Gerusalemme est e nel trittico video Ciao bella (esposto alla Biennale di Venezia curata da Szeemann, nel 2001) ha incarnato gli archetipi – e, soprattutto, gli stereotipi – femminili con la stessa tecnica del travestimento usata da Cindy Sherman e Yasamasu Morimura: in una parodia dell’Ultima cena, c’erano Lolita ma anche Sartjie Baartman, la famosa Venere ottentotta esposta nei freak show come corpo prodigioso, passando per Josephine Baker e qualche hostess, in una interpretazione di ruoli che accendono un immaginario trito.
Tracey Rose (Durban, 1974), artista sudafricana che in ogni sua azione artistica indaga le distorsioni delle politiche identitarie, sarà oggi al Pac di Milano – nell’ambito del festival Degenere – con la sua performance Pussies with Dicks (ore 19), in collaborazione con Oriana Haddad. Lo spettacolo utilizza dei burattini e si basa sulla sceneggiatura di commenti presi da video di Youtube riferiti a un’intervista sul femminismo alla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, per Channel Four. «L’umorismo – dice – non è mai innocente, è un modo per affrontare il trauma». E per entrare nei recessi umani (anche i suoi), Tracey Rose sfodera il corpo come strumento da manipolare a piacimento. Spesso, con azioni violente e aggressive che non permettono a chi osserva una chiusura difensiva nell’indifferenza.
La sua performance è dedicata a Adichie, l’autrice di «Metà di un sole giallo», «Americanah» ma anche «Cara Ijeawele: quindici consigli per crescere una bambina femminista». Perché ha scelto proprio questa scrittrice e le sue dichiarazioni sul femminismo?
Nelle mie intenzioni, non c’è nessun tributo. Il mio lavoro contiene una critica rispetto al fatto che viene accordato a un singolo individuo il beneficio della ragione: appare come una scelta preimpostata che fa incetta del silenzio di una schiera di voci. Quello che voglio dire è che Adichie è presentata come unica voce del femminismo dell’intero continente africano, ed è promossa come tale, senza mai fare riferimento alle legioni di donne che appartengono al nostro passato storico.
Perché ha utilizzato marionette al posto del corpo fisico reale per la pièce? Ha creato lei quei burattini o lavora in collaborazione con altri artigiani?
In realtà, oltre ai burattini / avatar, ci sono anche due performer dal vivo, uno dei quali sono io stessa e nell’azione originale l’altra «attrice» era l’artista Sara Mikolai (nata in Germania da genitori dello Ski Lanka). Originariamente, quando abbiamo realizzato la perfomance al Savvy di Berlino, abbiamo scelto di metterci sotto l’arco della galleria stessa. Lì Sara recitava in tedesco una traduzione all’impronta del discorso di Sojourner Truth Non sono forse io una donna?, l’intervento che lei tenne nel 1851, alla Women’s Convention di Akron nell’Ohio (nata schiava nel 1797, Truth vero nome Isabella Baumfree divenne una delle maggiori attiviste dei diritti umani e lottò in favore dell’abolizione di ogni forma di schiavitù, ndr). La nostra posizione non era casuale: voleva essere un riferimento esplicito ai fornici romani, usati dalle prostitute (da cui deriva il termine fornicazione).
Per la realizzazione della maggior parte delle marionette / avatar, posso dire invece che gli artigiani veri sono stati mio figlio di cinque anni e i miei nipoti. La gioia che provavano nel loro innocente piacere di assistermi mentre creavo la pièce si è rivelata una specie di gioco di opposizioni contro il contenuto del commento di YouTube e la stessa sceneggiatura. I pupazzi / avatar, nel mio percorso, si stanno sviluppando come vere «personalità / performer», su più livelli.
Il suo lavoro riguarda gli stereotipi culturali imposti alle donne africane, ma cosa ne pensa del divario di genere che esiste ancora in tutto il mondo?
Genere e razza sono depistaggi, continui diversivi dalle situazioni brutali che questo nostro pianeta si trova a vivere. Ci perdiamo in discussioni all’infinito su quegli argomenti mentre le nostre foreste sono decimate, gli oceani si stanno trasformando in luoghi desertici, il nostro suolo è tossico, l’aria irrespirabile…. Possiamo dare la colpa di queste tristi condizioni ambientali all’avidità e desiderio di supremazia del maschio bianco, e al valore principe dei Romani – dividi e impera: sicuramente, i conflitti tra i sessi possono agire come una distrazione rispetto all’unità che invece lubrifica i canali di stupro e saccheggio.
Spesso lei usa la categoria del «grottesco» nelle sue fotografie, video, spettacoli. Crede che possa essere più rivelatorio di un approccio realistico?
Il grottesco è un’estetica soggettiva e / o socializzata. Il mio lavoro trova la sua linfa in una cornice di sensibilità distopica dove anche gli oggetti «agiscono» a seconda della loro materialità. Le marionette (che possiamo anche considerare come avatar), sono assemblate con i detriti della vita e dell’industria: rappresentano quindi una deformazione del commercio e acquistano un valore artistico proprio dai rifiuti dei consumatori.
Lei ritualizza molto l’arte, chiedendo al pubblico emozioni e reazioni viscerali. Forse la pratica artistica può essere una sorta di terapia collettiva, uno «strumento» catartico per risvegliare la consapevolezza politica nelle persone?
Sì … in tutti i modi, sempre.
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