Stefania Bianchini sul ring ha conquistato tutto quello che si poteva vincere e a carriera ampiamente conclusa (nel 2008) ha deciso di fissare nero su bianco le sue memorie. Lo ha fatto in modo estremamente narrativo ne La combattente, autoritratto di una donna sul ring (Limina, 2013), utilizzando timbri molto differenti eppure ben miscelati fra loro: ora ironico, ora quasi poetico, mai nostalgico, sempre incalzante e leggero. Come lo era lei sul ring, peso mosca dalla mano però pesante. Soprattutto col gancio sinistro, trappola fatale per molte avversarie, nascosto com’era dietro la sua guardia mancina. «È vero – sorride Stefania – ero una picchiatrice, come si dice in gergo. Amavo scambiare i colpi e tentare di concludere prima dell’ultimo gong».
Una che va dritta al sodo, senza troppi preamboli. Un po’ come nella «Combattente»…
Non del tutto. Sul ring ero anche definita un diesel. Mi prendevo i miei tempi e uscivo sulla lunga distanza. Nel libro, con Antonio Voceri, abbiamo pensato di limitare gli aspetti più comuni della mia vita allo stretto indispensabile. Insomma, entriamo subito nel vivo.
Come mai?
Sono partita da un ragionamento: di un personaggio poco noto al grande pubblico, come sono io, è più opportuno indugiare su ciò che di significativo ha fatto; del grande personaggio, al contrario, può interessare anche la quotidianità, la vita più normale e intima. Il senso del libro è quello di proporre una storia con dei contenuti. Di primo acchito, ho rifiutato l’invito. Poi, dietro l’insistenza dell’editore, ho capito che c’era un forte interesse e mi sono convinta che la mia storia contenesse risvolti che valeva la pena raccontare. Ho riflettuto sugli aspetti positivi che la mia vicenda suggerisce e, quindi, ho accettato.
Quali sono questi aspetti?
Il primo che mi viene in mente è la dedizione. Ho iniziato tardi, a 22 anni, ma appena ho scoperto di avere attitudini adatte agli sport da combattimento ho riversato negli allenamenti l’impegno della professionista, anche se non lo ero ancora. Un primo messaggio, se così lo vogliamo chiamare, è proprio questo: con la serietà, con il carattere, si può arrivare dappertutto.
Anche contro oggettive avversità?
Soprattutto contro le avversità, è più divertente. E nel mio caso ce ne sono state parecchie. Ai miei tempi la boxe femminile in Italia era vietata. Così ho sottoscritto licenze straniere e sono andata a conquistarmi i primi titoli all’estero. È stato tutto molto pionieristico. Per non dire del subdolo maschilismo presente in Italia. Una volta liberalizzato il pugilato femminile ho potuto toccare con mano quello che nel libro definisco il paternalismo italico. L’infinita sperimentazione cui siamo state sottoposte e i caschetti protettivi sottintendevano il retro pensiero alla base della politica sportiva di casa nostra, ossia che una donna non è in grado di calcolare i rischi e di prendersi coscientemente le proprie responsabilità. È qualcosa di assurdo, ovviamente.
E poi i luoghi comuni…
Sì, nel libro mi diverto a raccontare le mie esperienze in televisione, quasi sempre nei panni del fenomeno da circo. Come donna-fighter ho sempre suscitato un certo interesse da parte dei media, ma mi sono anche scontrata con numerosi cliché. Su tutti la solita domanda tormentone: «Con il tuo fidanzato vi menate?».
Questo tipo di sufficienza c’era anche in palestra?
Affatto. In palestra i miei allenatori hanno sempre preso il mio impegno molto seriamente. I risultati li condivido con loro e sono il frutto di un lavoro davvero scrupoloso. E lo stesso vale per i colleghi maschi. Posso affermare che nell’ambiente del combat una fighter è molto ammirata.
Lo stesso non si può dire per certa stampa…
Immagino che il riferimento sia alla mia polemica con Rino Tommasi. Beh, in parte sì: non ho condiviso alcune sue argomentazioni contrarie alla boxe femminile e gli ho scritto una lettera al riguardo. In seguito ci siamo parlati, come si usa tra persone corrette, ma siamo rimasti sulle nostre posizioni. Mi spiace, perché la sua penna ha un peso. Io resto convinta che il temperamento e il fisico delle donne siano molto adatti a tutti gli sport da combattimento. Come, del resto, è stato ampiamente dimostrato.
A partire anche da Londra 2012…
Già, il pugilato femminile è anche alle Olimpiadi. Era ora.
Nessun rimpianto, in proposito?
Nessuno. Mi sarebbe piaciuto partecipare a un’edizione dei Giochi Olimpici, ma sono diventata professionista tanti anni fa, quindi non avrei potuto in ogni caso.
Nostalgia per il ring?
No. Mi sono divertita, ho sofferto, ho gioito e ho pianto, ma quel che è fatto è fatto. Preferisco guardare avanti e sono contenta così.
Punti salienti della carriera?
Ce ne sono parecchi, a dire il vero, anche se mi sono sempre lamentata di aver combattuto poco. Ogni match ha avuto una sua storia e una sua importanza. Sui due piedi mi viene in mente il primo combattimento a contatto pieno di kickboxing a Loano, contro Daniela Paolino. Ero letteralmente terrorizzata. Naturalmente, il trionfo a Parigi contro Virginie Ducros, sempre nella kickboxing. Avevo già 26 anni e quella vittoria diede il via alla mia vera carriera. In un certo senso cambiò la mia vita anche un durissimo match contro Ilonka Elmont, detta Killer Queen, sempre con un titolo mondiale di kickboxing in palio, durante un Oktagon a Milano: fu devastante ed entusiasmante al tempo stesso. Ci sono poi i mondiali di pugilato: ad Amburgo contro Regina Halmich come sottoclou di una difesa di Wladimir Klitschko e a Rimini contro Cathy Brown. Esiti diversi ma identiche emozioni. Alzare la cintura di campionessa del mondo Wbc fu il coronamento di una vita intera. E poi ricordo le sconfitte: le spietate giapponesi a Tokyo, «l’armadio» polacco a Danzica, il furto in Ungheria contro Viktoria Milo, l’epilogo contro Simona Galassi…
Alla fine di tutto il percorso, quale conclusione possiamo suggerire.
Si impara molto di più dalle sconfitte che dalle vittorie. Non solo, la sconfitta è uno degli elementi più importanti nella formazione di chiunque e come tale va accettata. Anche se….
Anche se?
… tutto sommato è meglio vincere.