Ministro Provenzano, a 50 anni dalla legge 30 lei propone un nuovo Statuto dei lavoratori. Con questa maggioranza è una proposta verosimile?

Fin qui abbiamo rincorso i mutamenti del mercato del lavoro. Anche noi, che abbiamo previsto già dall’autunno un rafforzamento di tutele per rider. Ma al tempo dell’algoritmo, dello smart working, e alla luce della pandemia, dobbiamo continuare a mettere le toppe? È il momento di scrivere un nuovo statuto che riveda la disciplina del mercato del lavoro, fin qui frammentata e precarizzante. Da più parti ci si interroga su quale ambizione alta si possa dare a questa legislatura, e al governo. Riportare il lavoro al centro del dibattito e dell’azione di governo risponde a questa ambizione. È il lavoro il filo con cui ricostruire una trama sociale, che dopo la pandemia rischia di lacerarsi di più. L’impatto della crisi potrebbe essere superiore a quello della grande recessione, che lasciò sul campo un milione di posti. Con i decreti, mobilitando risorse senza precedenti, ci siamo mossi per minimizzare le perdite. Ora dobbiamo creare nuove occasioni di lavoro, con un’innovazione che significhi inclusione sociale, che affermi la dignità di ogni lavoro. La prima idea di statuto nacque quando Di Vittorio preparava il piano del lavoro, che anticipò l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, contribuendo al grande balzo dell’Italia.

Arcelor licenzia un lavoratore per un tweet sull’azienda. Come si accorcia la distanza fra quello che dice e la realtà concreta?

Coinvolgendo le forze sociali, sindacali e produttive nella discussione su un nuovo patto. In parlamento c’è una proposta della Cgil che è un utile punto di partenza. Ma un discorso così ampio si fa se nelle forze politiche matura la convinzione che non possiamo permetterci di indebolire il nostro tessuto sociale. Non significa annullare il conflitto, che nutre la democrazia. Si evoca lo spirito della ricostruzione: lì le istituzioni si fecero carico della giustizia sociale.

I 5 stelle hanno fatto grande resistenza sulla legge sui braccianti. E Renzi è l’indimenticato padre del Jobs act, che Carlo Smuraglia ha definito «un attacco frontale allo statuto dei lavoratori». Con chi fareste il patto più avanzato?

In una maggioranza si può discutere, senza ultimatum, e fare battaglia politica. Così successe nel 70 grazie al socialista Brodolini ma anche alla volontà di una parte della Dc. Le emergenze fanno cadere i tabù. Il Jobs act era una legge pensata per gli anni 90, su cui peraltro è intervenuta anche la Consulta. Appartiene a un’altra epoca. Oggi se lavori da casa hai bisogno di regolare nuovi diritti, come quello a disconnetterti, a conciliare i tempi di vita. Altrimenti, nella realtà, a pagare il prezzo più alto sono le donne. La pandemia ci ha fatto riscoprire il valore della scienza, della ricerca e della tecnologia. È indispensabile affermare il diritto alla formazione permanente in tutti i contratti. E il dibattito è in ritardo. La prima ministra neozelandese propone di ridurre la settimana lavorativa a parità di salario. Una posizione del genere è stata rilanciata da Avvenire, non un quotidiano sovietico. È una scelta che non si fa per decreto, va lasciata alla contrattazione collettiva, ma la pandemia dimostra che la centralità dell’orario di lavoro viene meno.

Quando Avvenire ha fatto quel titolo Confindustria ha reagito duramente. E il ministero del Lavoro si è affrettato a smentire.

Bisogna aprire un discussione con le organizzazioni produttive. Tutti abbiamo bisogno di innovare.

A proposito di soviet, una larga parte del Pd chiede più garanzie in cambio delle garanzie sul prestito a Fca Italy. Il Mef vigilerà?

È la legge che ci impone di vigilare su licenziamenti e delocalizzazioni. Se i prestiti sono grandi le garanzie devono essere maggiori, e le parole di Gualtieri lo confermano. In gioco è il destino industriale del paese. Non è statalismo evitare gli errori del passato. Non è lesa maestà chiedere che fine ha fatto Fabbrica Italia. Siccome c’è uno scarto fra ciò che è stato promesso e ciò che è stato mantenuto, ora abbiamo bisogno di impegni chiari sui posti di lavoro, su un progetto industriale innovativo per rilanciare un settore già in difficoltà prima del Covid. Aggiungo: se ricevi un sostegno cospicuo, la priorità è investire o distribuire megadividendi? È la domanda che pone Calenda, non un soviet.

Anche in questo caso Italia viva ha risposto picche.

Io penso che su questo il consenso nel paese sia molto ampio.

Avete parlato di centri economici e dell’informazione che hanno interesse alla caduta del governo. Ora che il decreto Rilancio è andato incontro a questi «centri», penso all’Irap, il pericolo non c’è più?

Sento parlare di minacce alla tenuta del governo dalla settimana in cui si è insediato, salvo la fase più acuta del lockdown. Ogni critica è legittima, non mi preoccupano le ripercussioni sul governo ma l’equilibrio nel confronto tra le forze dell’impresa e quelle del lavoro. È fondamentale per superare crisi, il governo deve farsene carico. La disintermediazione è stata un tentativo di suicidio della sinistra ma anche la morte della democrazia.

Ci sarà un rimpasto nel governo?

Il rimpasto l’ho letto sui retroscena. Ma la scena è più importante. Mi concentrerei su questa.

Il Pd si sente accerchiato dalla nuova geografia delle proprietà dei media?

Il Pd oggi è in buona salute. Penso però sia stato un errore del passato non affrontare alcuni nodi fra cui il conflitto di interesse, che abbiamo identificato solo in Berlusconi. Non era così allora ma oggi, in piena espansione del ruolo pubblico, checché ne dicano i liberisti su twitter, serve ancora di più una moderna legislazione dei conflitti di interesse. Soprattutto nel settore strategico dell’informazione. Non è un tema socialista ma il cardine di una democrazia liberale.

Lei è uno dei protagonisti dell’accordo sui braccianti. Oggi c’è lo sciopero degli «invisibili» non raggiunti dalla vostra legge.

Quella norma è un atto dovuto, di civiltà. Non risolve tutti i problemi dell’immigrazione che non risalgono solo a Salvini ma alla Bossi Fini. Peccato che il centrosinistra non l’abbia cambiata quando aveva i numeri. Ora questa discussione va ripresa. Intanto rivendico un compromesso onorevole e non scontato. Del resto, c’è il consenso dei maggiori sindacati e della grande maggioranza delle associazioni, nella consapevolezza che si tratta di un primo passo. Ma ho rispetto per lo sciopero, non ne ho visti prima, e ammiro l’impegno di sindacalizzazione in quelle campagne. Le conquiste passano anche per la battaglia sociale.