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Enrique Vila-Matas (nato a Barcellona nel 1948) per tre settimane si è recato in un ristorante cinese nella periferia di Kassel per compiere il suo lavoro abituale – ossia scrivere – trasformandosi così in un’opera d’arte vivente. Queste erano, d’altronde, le istruzioni presenti nell’invito che aveva ricevuto affinché partecipasse a Documenta 13.
Kassel non invita alla logica (in Italia edito da Feltrinelli) è la narrazione di quell’esperienza vissuta dall’autore spagnolo, libro di viaggio, diario e insieme romanzo. È anche una divertita affabulazione delle varie declinazioni che può generare l’incontro con l’arte per uno scrittore. Vila-Matas ha presentato il suo libro presso l’HangarBicocca di Milano, luogo deputato (appunto) alle mostre degli artisti contemporanei.

La partecipazione a Documenta 13 fu la sua prima esperienza in ambito artistico?
Prima di Kassel, per me era stato molto rilevante l’incontro con Sophie Calle a Parigi: era il 2006, in dicembre, quando accettai la sua proposta di scrivere una storia che poi lei avrebbe cercato di «vivere». La storia di quell’incontro è narrata – anche se in forma di finzione – in Perché lei non me lo ha chiesto, racconto pubblicato nel libro Esploratori dell’abisso. Lo scambio con Sophie Calle è stato molto stimolante, ha aperto nuove prospettive e mi ha anche aiutato a uscire da quel confine letterario nel quale mi ero volontariamente recluso. Lei ha cercato di condurmi dalla letteratura alla vita, e, per poco, non sono caduto nella sua trappola. In seguito, ho avuto la fortuna di sperimentare anche un altro incontro fertile: quello con Dominique Gonzalez-Foerster, con la quale negli ultimi anni ho collaborato per alcune sue installazioni, tra cui TH.2058 alla Tate Modern di Londra.
La mia relazione con l’arte, quindi, era iniziata ben prima di Kassel ed è poi proseguita nel tempo. Documenta 13 è stato solo un punto di passaggio, uno snodo. Mi ha permesso di conoscere artisti di cui prima ignoravo anche l’esistenza, come Tino Sehgal, Ryan Gander, Janet Cardiff, Pierre Huyghe. Continuo a pedinare il loro lavoro con lo stesso interesse con cui seguo scrittori o registi cinematografici che amo.

Nel libro rende esplicito il fatto che la scoperta di alcune opere sia stata particolarmente illuminante…
In genere, mi interessa ciò che non comprendo; a Documenta, le opere che si presentavano enigmatiche mi hanno obbligato a pormi delle domande. Hanno rappresentato interrogativi che non hanno avuto risposte univoche o che ne hanno generate delle altre. Sono felice quando posso entrare in sintonia con ciò che vedo, ma allo stesso tempo non credo che non capire sia una condanna, piuttosto è vero il contrario: quel momento lo visualizzo come una porta che si apre su un percorso inesplorato. Un’opera di Rubens mi affascina, però la afferro talmente bene che esco dalla sala del museo correndo. Se guardo un’installazione di Pierre Huyghe, invece, non riesco a decifrarla all’istante e può capitare che io passi la notte – come è successo a Kassel – all’interno dell’opera stessa. Kassel non invita alla logica sarà tradotto in Cina insieme ad altri miei libri: sono curioso di sapere come sarà accolto e interpretato. Mi chiedo, ad esempio, come immagineranno laggiù il mio ristorante cinese di Kassel… Quali fraintendimenti nasceranno dalla lettura di quella esperienza?

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Dopo Documenta 13 è stato invitato, come ospite, ad altre mostre?
Miquel Barceló mi ha incluso con un disegno nella sua «galleria di ritratti». Ho participato, inoltre, a Poets, un libro straordinario dell’artista Bernardi Roig. A Nantes il febbraio del prossimo anno realizzerò una installazione delle «machines célibataires» di Marie-Pierre Bonniol. Il mio entusiasmo continua, non posso negarlo. Questo non significa però che io sia interessato a tutta la scena contemporanea; seguo solo alcuni artisti: molti lavori che oggi circolano mi sembrano un inganno. E i falsi autori generano solo discredito culturale…

Molti artisti utilizzano la scrittura per realizzare le loro opere. La raccolta «The Book Lovers», collezione di volumi scritti da artisti visivi (tra cui Rodney Graham, Renée Green, Roee Rosen, Francis Picabia, Richard Prince) è stata acquistata dal museo MuHKA di Anversa come parte della sua collezione. Quali sono, se esistono, i dialoghi possibili tra l’arte e la letteratura?
Rispetto alla scena contemporanea non sono molto informato. Conosco l’opera di John Berger, le collaborazioni di Joan Miró con i poeti, la corrispondenza tra Jean Dubuffet e Gombrowicz… A settembre la casa editrice Bourgois pubblicherà a Parigi Marienbad électrique, un libro che ho scritto riflettendo sulla mia relazione con Dominique Gonzalez-Foerster, sulla nostra amicizia e sulle idee che abbiamo condiviso nel corso degli anni.
Ha dichiarato che «l’arte e la memoria della storia sono inseparabili». Qual è la sua relazione con il realismo e il cinema documentario? Negli ultimi anni molti artisti hanno lavorato su temi storici e sociali seguendo le forme del film-saggio…
Arte e memoria sono e devono essere inseparabili, ma ciò che mi appassiona maggiormente non è l’arte realista. Preferisco propendere per chi realizza un’opera di finzione che possiede sembianze reali. In ambito letterario, mi considero un militante della finzione-finzione; sono un erede di alcune parole di Nabokov che possono tornare utili anche per l’arte contemporanea: «La letteratura è invenzione. La finzione è finzione. Definire un racconto di storia vero è un insulto all’arte e alla verità. Un grande scrittore è un grande imbroglione, ma lo è anche quella superimbrogliona che è la Natura». Attenzione però: attraverso la finzione ci si può avvicinare maggiormente alla verità, molto di più dell’arte che pretende di essere uno specchio della realtà.
Se si studia bene la letteratura si può osservare che, nel corso della sua storia, gli scrittori che hanno lottato con uno sforzo titanico contro ogni forma di leziosità o di impostura – Dostoievski, Kafka, o lo stesso Beckett, per esempio – erano autori che vivevano nel mondo dell’artificio. Kafka nel narrarci le disavventure dello scarafaggio parla della sua esistenza, conduce il lettore in zone di pura autenticità. Qualsiasi pubblico un po’ perspicace può scoprire, terrorizzato, che sta leggendo qualcosa di cui non potrà mai essere assolutamente certo. Ho detto «qualsiasi pubblico perspicace» eliminando i lettori di cui parla David Shields, che fuggono dal falso credendo che la realtà sia ciò che vedono in televisione. Nel suo libro Fame di realtà – molto commentato, anche se non so se è altrettanto letto negli Stati Uniti – l’autore afferma di essere stanco di artifici creati da lui e da altri autori, è annoiato di leggere trame che pullulano di personaggi inventati. Sentenzia che i reality televisivi, le memorie e altri format di tipo documentario alimentino il desiderio di autenticità, elemento assente invece nelle opere di finzione. Per Shields, il romanzo – la costruzione immaginifica della storia – si è atrofizzata; è diventato difficile per gli scrittori abitare un mondo che è sempre più artificiale e, per questo motivo, molti di loro stanno iniziando a ricercare la verità all’interno della propria vita. Questa affermazione di Shields non mi convince, mi sembra una grande stupidaggine.