«Fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire», sosteneva Roland Barthes nella celebre prima Lezione al College de France. Buon viatico – seppure non sufficiente – per la lettura di Italiani nei lager. Linguaggio, potere, resistenza (Milieu edizioni, pp. 178, euro 16,90) di Rocco Marzulli.

L’AUTORE ritorna sull’argomento dopo La lingua dei lager (Donzelli, 2017), e, seguendo la linea tracciata da Giovanna Massariello, prima studiosa a impegnarsi su questi temi, sviluppa una ricerca storico-linguistica partendo dalla memorialistica sulla deportazione degli italiani e dalla bibliografia scientifica a essa inerente, con grande rigore, una documentazione impressionante.
Dopo il settembre ’43, gli italiani sono tra gli ultimi deportati, quando il lager è insieme macchina di sterminio e campo adibito ai lavori pesanti per la produzione bellica. Considerati traditori dai nazisti e fascisti dai prigionieri di altre nazionalità, sono vessati più di altri. Non conoscono il tedesco e non riescono a decifrare i meccanismi del campo di concentramento, condizione che causerà la morte di molti e porterà altri ad apprendere elementi essenziali della lingua dei nazisti e la lingua franca parlata dai prigionieri.

LA RICERCA, attraverso la prospettiva del linguaggio, fa emergere la logica che determina la vita e la morte nel lager, il rapporto tra nazisti e prigionieri e tra i prigionieri stessi. In questa condizione estrema, gli internati possono lottare per sopravvivere attraverso una lingua franca nata dall’ibridazione di vari idiomi dei deportati, che assume anche l’aspetto del gergo e del linguaggio in codice, che aiuta a procurarsi qualcosa da mangiare, ad acquisire informazioni sui pericoli e a decodificare la drammatica realtà.
È interessante notare come l’organizzazione linguistica dello stato-nazione (lingua imposta, lingue subalterne, dialetti, gerghi) nel microcosmo concentrazionario del lager venga portata all’estremo, fino a ridurre la lingua tra dominati e dominatori a poche parole, senza articolazioni sintattiche, urlate dai nazisti con violenza. L’annullamento dell’umanità passa non solo dalle paurose condizioni di lavoro e di vita, ma anche dal linguaggio.

IN OGNI CAPITOLO vengono intessuti centinaia di frammenti di testimonianze tratte da documentazioni scritte e orali (quelle degli archivi della «Fondazione memoria della deportazione» sono qui trascritte e pubblicate per la prima volta) sugli argomenti affrontati: il rapporto tra prigionieri e sorveglianti; la metamorfosi e la reificazione degli esseri umani; le categorie dei prigionieri; l’organizzazione del lager; i linguaggi in codice; i luoghi della morte; la modificazione delle lingue; così da creare un tessuto connettivo che permette di conoscere l’esperienza vissuta degli internati.
Il capitolo conclusivo contiene analisi e proposte per il proseguo di una sempre più efficace ricerca su questo tema e due paragrafi, densi di riflessioni e di testimonianze notevoli, dedicate alle reticenze e al silenzio dei reduci. Il trauma subito, la mancanza di interesse da parte di chi non ha vissuto quell’esperienza e la mancanza di una lingua adeguata a comunicarla, sono alcuni dei motivi che portano il sopravvissuto a non testimoniare. Nel dopoguerra molti si sono suicidati per non essere stati creduti o per aver creduto di superare quell’esperienza con la rimozione e l’oblio.

PER RIPRENDERE la suggestione dell’affermazione di Barthes, in questo caso il fascismo non ha obbligato a dire, ma a tacere. I «musulmani» nel linguaggio del lager erano «quelli che hanno toccato il fondo», come testimonia Primo Levi in I sommersi e i salvati, «gli internati giunti a un tale stato di perdita di coscienza da essere completamente apatici», «più difficili da guardare dei cadaveri», come sostiene Giorgio Agamben in Cosa resta di Auschwitz. I «musulmani» continuano a urlarci anche con i loro silenzi e anche attraverso questo libro.