«Un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il suo languido riflesso nella laguna, rimaniamo incerti quale sia la Città e quale l’ombra.», scriveva di Venezia John Ruskin in The Stones of Venice (1851-53). Intrappolato nel contrastante sentimento d’ira e amore per la città lagunare, il critico d’arte inglese le dedicò quest’opera letteraria che esprime la profonda connessione dell’arte veneziana con l’indole della città. Lo sguardo metodico di Ruskin nell’osservare, classificare, paragonare, studiare e disegnare le pietre di Venezia si sofferma anche su Casa Foscari quando, nell’analizzare i parapetti traforati di derivazione bizantina in una stanza segreta dell’antica dimora, annota la presenza di un elemento «molto più semplice e austero, ma anche straordinariamente arguto». All’epoca l’edificio doveva essere già impoverito dei suoi tesori artistici, viste le fasi travagliate che aveva subito: nel 1868 venne acquisito da parte della giunta comunale e a breve destinato ad ospitare l’ateneo che porta il suo nome.

Come Ruskin, Riccardo Zipoli (Prato 1952, vive e lavora tra Venezia e la Toscana) ha uno sguardo metodico nell’osservare Ca’ Foscari, che ha frequentato prima da studente – si è laureato nel ’75 in lingua e letteratura iranica, seguendo il corso di Gianroberto Scarcia e viaggiando con lui in Persia – e poi da docente, insegnando fino al 2018 Lingua e letteratura persiana e Ideazione e produzione fotografica. All’ateneo egli ha dedicato anche uno dei suoi progetti editoriali più complessi, In Domo Foscari. Memorie e immagini di un ateneo (Marsilio 2018) che celebra il 150° anniversario dell’università. Un libro che è valso all’autore il Premio Hemingway Fotografia 2019, nato dalla collaborazione del Comune di Lignano Sabbiadoro con la Fondazione Pordenonelegge. Riccardo Zipoli ne parla sfogliandone una copia nella stanza 3E nel sottotetto di Palazzo Vendramin, sede distaccata del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università di Ca’ Foscari. La sua scrivania è piena di libri, ma perfettamente ordinata. Tra i tanti volumi c’è Un giardino nella voce. Persia 1972-1994 (1995), Hâfez secondo Abbas Kiarostami (2017) e gli stampati del nuovo libro che sta nascendo proprio dagli scarti di In Domo Foscari. Memorie e immagini di un ateneo. Momenti in cui la fotografia s’intreccia alla poesia, al paesaggio, alla storia, al ricordo.

Tradizione e innovazione sono i due cardini di «In Domo Foscari. Memorie e immagini di un ateneo». Qual è il rapporto tra fotografia e testo?
Questo libro nasce da quello precedente sul liceo convitto Marco Foscarini di Venezia a cui avevo lavorato con il grande grafico Alberto Prandi, che purtroppo è scomparso. Per In Domo Foscari ho collaborato con un suo allievo e un suo collega, Francesco Zambello e Andrea Farinati. Per costruire un libro è importante anche l’organizzazione di tutti quegli elementi che vengono considerati marginali come formato, font, risguardi… Il paratesto, in questo caso, ha in parte condizionato il progetto grafico, perché la prima parte del libro è scientifica. Essendo un libro di divulgazione ho chiesto a 14 colleghi di contribuire con un breve medaglione dedicato ai vari aspetti dell’ateneo. Quanto alle fotografie sono sia descrittive e di documentazione che più «trasgressive» perché, sebbene Ca’ Foscari abbia una facciata che è fra le più belle di tutto il canale gli interni, per note vicende storiche, hanno subito innumerevoli oltraggi. Per un anno intero, nel 2017, ho lavorato giorno dopo giorno. Avevo il privilegio di avere tutte le chiavi dell’edificio. Entravo da solo nelle stanze, studiavo la luce. Ho anche visitato tutti i palazzi intorno per fotografare da tutte le possibili angolazioni; ho parlato con personale, studenti e docenti e letto tutto quello che potevo leggere. Mi sono costruito un percorso come una sceneggiatura, dagli esterni agli interni, in cui tra l’altro, ho scoperto un aspetto ignoto. Sotto Ca’ Foscari sono stati fatti degli scavi archeologici che hanno portato in luce resti del VI secolo d.C. che, però, dopo sono stati ricoperti.

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L’immagine del Canal Grande verso il ponte di Rialto cita la veduta di Canaletto…
Ca’ Foscari è stata raffigurata da molti pittori, incisori e fotografi. Nel 1841, l’inglese Alexander John Ellis, durante il Grand Tour, fece 14 dagherrotipi a Venezia di cui tre dedicati a Ca’ Foscari. Nella mia immagine del Canal Grande ho voluto fare un’operazione artificiale ricreando il Canaletto per riflettere sul fatto che, in trecento anni, la città è rimasta quasi la stessa. Quest’osservazione mi consente di introdurre un altro argomento fondamentale che riguarda questo libro, il concetto del trascorrere del tempo e il senso di continuità che ho cercato di rendere anche mediante i riflessi del Canal Grande sulla vetrata dell’aula Mario Baratto, che è anche la più bella dell’ateneo con gli interventi di Carlo Scarpa. Attraverso i riflessi la città, in qualche maniera, si allarga e deforma per dare il senso del tempo che passa. Un altro espediente che ho utilizzato è stato fotografare un dettaglio della parete del cortile nelle diverse stagioni. Tra queste c’è l’unica fotografia in cui è presente il momento decisivo alla Cartier-Bresson, perché mentre stavo inquadrando il soggetto è arrivato un pettirosso. Sarà stato lì pochi secondi e poi se n’è andato, giusto il tempo di fotografarlo. Uno di quei momenti magici che danno umanità al racconto.

Henri Cartier-Bresson, tuttavia, non è mai stato un suo referente…
Io non fotografo il momento decisivo, me lo costruisco. Però mi piace fare fotografie mettendo sulla stessa linea, come dice lui, occhi, mente e cuore. In molte fotografie del libro equilibrio, simmetria e struttura sono studiatissime. Ho realizzato staged photography alla Jeff Wall – anche se mi sento sempre più vicino a Luigi Ghirri – perché il libro cerca di combinare le bellezze da museo d’arte e la vivacità di un luogo in cui si studia e lavora. Per questo ho organizzato una specie di casualità organizzata, un realismo ideale in cui c’è la confusione del lavoro e la pulizia della visione, come nell’immagine dell’ingresso. Sono stato tutta una mattina ad aspettare che passassero le persone. Ogni persona corrisponde ad uno scatto diverso. Ne ho fatti tanti – l’operaio, il personale amministrativo, un docente, gli studenti – tutti si muovono. M’interessa portare la situazione al limite dell’inverosimile, un po’ come fa Fontcuberta nel rendere sospettose le persone per farle riflettere sull’immagine. È così, ma potrebbe anche non esserlo…

Nel suo lavoro c’è anche l’influenza di Tarkovskij e di Abbas Kiarostami, a cui lei è stato legato da un rapporto di profonda amicizia…
Tarkovskij non l’ho conosciuto di persona, ma ho studiato a fondo tutti i suoi film vedendoli decine di volte. Nel 2012 ho realizzato la mostra e il libro Nostalgie, c’est pour toujours: omaggio ad Andrej Tarkovskij individuando alcune immagini in grado di rappresentare i temi chiave della sua poetica che ho confrontato con altre provenienti dal mio archivio. Il progetto è organizzato tematicamente per coppie, ma non ho indicato le diverse provenienze mirando a creare un’incertezza che potesse testimoniare la programmata uniformità. Quanto al mio secondo maestro è il regista persiano Abbas Kiarostami di cui sono stato amico fraterno. Insieme abbiamo fatto varie mostre (tra cui Molâhezât-e shâ‘erâne: photographs by Riccardo Zipoli and Abbas Kiarostami (Snow white), Silk Road gallery, Tehran 2005 e Iran, gente strade paesaggi, fotografie di Abbas Kiarostami, Riccardo Zipoli e 56 autori persiani contemporanei, Centro Culturale Candiani, Mestre-Venezia 2007, ndr.) e ho tradotto i suoi libri di poesie. Era un genio! Il suo insegnamento? La visione del mondo. Parlando di realismo ideale ecco un aneddoto che mi ha raccontato: «sai Riccardo, una volta sono andato nel deserto persiano a fare delle foto di alberi ma c’era un alberino che mi dava noia. Allora l’ho sradicato e l’ho messo da parte. Poi è arrivato un pastore che s’è arrabbiato perché era l’unico luogo d’ombra. Allora sono andato a Teheran, ho comprato un albero e l’ho piantato». Ecco, questa eliminazione di un dettaglio per rendere al meglio il paesaggio secondo la propria sensibilità me l’ha insegnata Kiarostami. Magari non tolgo l’albero come dice di aver fatto lui – era anche un po’ «gigione», gli piaceva raccontare in maniera divertente, era molto simpatico – io lo faccio con photoshop in un secondo. Ed è anche più ecologico! (ride)