Davanti alla folla che riempie piazza del Popolo a metà, compare un Roberto Gualtieri quasi inedito. Si capisce che sta uscendo del personaggio del professore rassicurante quando dal palco ammette di essere stanco di parlare di «parlare di rifiuti buche topi e cinghiali» perché, è il ragionamento, Roma merita grandi scenari, orizzonti internazionali, progetti vasti.

EPPURE, come dice Nicola Zingaretti, «solo tre mesi fa tutto questo non era pensabile», anche lui venuto a dare l’ultima spinta prima del voto di domenica e lunedì. Non era pensabile ed è avvenuto, come accade di questi tempi, con prospettive ambivalenti e processi che resteranno aperti anche a urne chiuse. Quando affermano che arrivare fino a questo punto non era scontato, Gualtieri e i suoi sanno che qualcosa sfugge alle tattiche politiche e alle strategie disegnate a tavolino. Il candidato sindaco del centrosinistra ammette di «sentire un vento positivo», ma ci sono alcuni fattori con i quali deve fare i conti da qui allo spoglio e dovrà cimentarsi nel caso diventerà sindaco di Roma. Il primo è l’astensionismo: è stato alto come non mai al primo turno e rischia di crescere ancora al ballottaggio. Il che può aver favorito Gualtieri, che ha un elettorato meno leggero, di opinione, e più consolidato e motivato. Ma rivela il rischio di una vittoria dal fiato corto, con gambe sociali fragili. All’area, confusa ed eterogenea, del malcontento e della sfiducia verso la politica allude Zingaretti quando ricorda che solo una settimana prima, nella stessa piazza di Roma, c’era la manifestazione contro il green pass che era un crogiolo di rivendicazioni e che è sfociata nell’assalto alla Cgil. «Coloro che erano in questa piazza sulla base di una condizione disperata meritano una risposta», dice il presidente della Regione Lazio.

ANCORA, GUALTIERI sa che può contare sul quasi-endorsement, più dichiarazioni di voto personali che appoggi politici formali, del leader M5S Giuseppe Conte e di Carlo Calenda. Sulla carta, dovrebbe consentirgli un agile sorpasso su Enrico Michetti, che al primo punto lo ha superato di 3 punti. Ma non è affatto detto, perché la tenaglia tra populismo e antipopulismo, rappresentata dalla dialettica speculare tra l’improvvisazione rivendicata da Raggi e l’ideologia del merito di Calenda, resta un enigma dal punto di vista elettorale.

QUANDO IL CANDIDATO parla di «partecipazione» fa di necessità virtù: «Non sarò da solo – annuncia – Questa sfida la condurremo insieme, solo così si possono raggiungere i risultati». Allora fa riferimento ai candidati presidenti di municipio (in corsa quattordici casi su quindici e in tutta Roma con un serbatoio di voti che eccede il consenso del candidato per il Campidoglio), dice di voler rifiutare la contrapposizione tra centro e periferia, promette «la città dei quindici minuti» con servizi diffusi e decentrati, richiama più volte la risorsa costituita dalle reti sociali e dall’associazionismo. Sa che il colpo che potrebbe rivelarsi decisivo di questa campagna si è registrato quando la narrazione della destra (il decoro, la competenza) si è infranta sugli strafalcioni storici e gli stereotipi dell’antisemitismo. Per questo ancora ieri, quando Michetti ha proposto per l’ennesima volta l’analogia tra sedi neofasciste e spazi sociali, l’ex ministro si è fatto trovare pronto: «CasaPound non è la stessa cosa della casa delle donne Lucha y Siesta o di quelli che aiutano i più deboli». «Da candidato sindaco ho fatto quello che da parlamentare europeo prima e da ministro dopo non potevo fare: sono tornato tra le persone – confessa Gualtieri – Per me è stata un’esperienza rigenerante anche dal punto di vista umano». Da lunedì sera la rigenerazione che rivendica per sè e per il centrosinistra potrebbe essere messa alla prova del Campidoglio.