Contro la costruzione del metanodotto sardo si schiera una delle voci più autorevoli dell’ambientalismo sardo, Sandro Roggio, tra i padri, con Eduardo Salzano e Renato Soru, del Piano paesaggistico con il quale nel 2006 le coste sarde furono messe al sicuro rispetto alle mire della speculazione edilizia e immobiliare.

Serve davvero questo lungo tubo che da Sassari a Cagliari dovrebbe portare il metano a tutti i sardi?

Come altre opere molto strombazzate, anche questa è inutile soprattutto perché è in ritardo. Il metano non è il futuro dell’energia. Dopo decenni di attesa, ora potrebbe arrivare nell’isola e ad applaudire sono soprattutto gli industriali sardi, in particolare le imprese edilizie, le stesse che costruiscono case e poi magari neanche le vendono perché il mercato è saturo. Come il cemento che resta senza acquirenti, anche il metano è una risposta fuori tempo, obsoleta. Ma serve ad aprire cantieri, serve a fare i lavori di costruzione, che sono facili e con un alto utile d’impresa: scavi e riporti e tubi da posare, in tutto quasi un paio di miliardi. Una roba che fa gola a molti. Capisco le ragioni di chi si aspetta tanto da questo progetto, ma colpisce la sottovalutazione di altre visioni, di scelte che non siano quelle del profitto dietro l’angolo.

Quali visioni, quali scelte?

Servirebbe un migliore impiego delle risorse per dotare l’isola dei più evoluti impianti da fonti rinnovabili, in grandi aree destinate, non sparse a macchia di leopardo nelle più varie zone dell’isola, senza un piano organico che coinvolga tutta la regione. E’ il futuro cui dovrebbero guardare tutti, compresi i rappresentanti dei lavoratori di domani. E invece vedo sindacalisti, a cominciare dal segretario regionale della Cgil, prigionieri di un infinito presente, senza visione, come se tutto fosse destinato ad andare come sempre. E chi rompe, alla fine non paga mai.

Non è una novità nel panorama italiano la preferenza per opere infrastrutturali sbagliate…

Sì, certo. Nel caso del metanodotto sardo l’esempio più calzante è il Mose, costruito per fermare l’acqua alta a Venezia e mai entrato in funzione. Una grande opera abbandonata dopo che, nella fase della sua costruzione, è servita a pochissimi. Il modello di sviluppo che sembra si stia preparando per la Sardegna prevede una roba così. Prima l’isola era buona per fare legna dai boschi, combustibile da usare per la modernizzazione della penisola. Oggi è ancora una piattaforma da utilizzare per necessità esogene. In Sardegna si può quello che non realizzabile dove c’è tanta popolazione. La bassa densità abitativa diventa funzionale a ogni spreco. Al centro della regione intere aree spopolate, un vuoto comodo per celare nascondigli e traffici di ogni genere. Ai bordi, invece, nelle riviere abitate d’estate, si guarda (sempre che spiagge e mare, occupati da basi militari, non siano chiusi per guerre simulate) a un orizzonte incerto, magari pensando di andar via.