La morte di Carlo Flamigni lascia un vuoto evidente nell’ambito della riflessione in merito ai diritti riproduttivi e non solo. Il suo impegno sia in ambito scientifico sia sociale è noto ed estremamente documentato.

Ma forse c’è un aspetto della sua personalità di uomo, di medico, di insegnante universitario, che pochi conoscono, se non hanno avuto la fortuna di averlo come docente.

Chi scrive ebbe l’opportunità di specializzarsi con lui, nei lontani anni ’80 del secolo scorso, quando, ad esempio, il dibattito sull’etnomedicina era ancora patrimonio di pochi tra le austere mura dell’Alma Mater di Bologna. All’epoca lavoravo in Zaire, l’attuale Repubblica Democratica del Congo, retta con pugno sanguinario dal cleptocrate Mobutu Sese Sezo Kuku Gnuendu Wa Za Banga. Dirigevo un piccolo ospedale che era stato abbandonato dai colonizzatori belgi all’indomani dell’indipendenza e che la foresta tropicale dell’Ituri si era mangiato pezzo a pezzo. I mezzi erano a dir poco scarsi, basti dire che non avevo, essendo tra l’altro l’unico chirurgo, né l’energia elettrica né l’acqua corrente. Ebbene, in queste condizioni estreme, mi abituai velocemente a tecniche ostetrico-ginecologiche diciamo essenziali, seppur molto efficaci nella situazione data. Inutile dettagliare poiché per la sensibilità odierna sarebbero pratiche poco accettabili, ma il punto è che per Carlo Flamigni, Direttore della Scuola di Specializzazione, risultavano talmente interessanti da volerne fare materia di riflessione didattica attraverso una serie di lezioni magistrali che mi invitò a tenere, non solo agli altri specializzandi, ma anche al corpo docente.

Purtroppo la sua prolusione fu tenuta a braccio, ma il contenuto verteva, già allora, sulla necessità di comprendere i gesti di cura all’interno della cultura che li esprimeva, a partire dalla cosmovisione propria a tutte le civilizzazioni cosiddette tradizionali. Ricordo come fosse oggi lo stupore che si dipingeva via via sul volti di alcuni dei docenti alle sue parole inaudite, di fronte a concetti quali «sacralità dei gesti di cura», o «potenza simbolica» di certe pratiche. Erano anche i tempi delle prime riflessioni di Foucault, che Flamigni conosceva ed apprezzava, come pure degli studi su Fanon, che per primo aveva evidenziato la centralità dei rapporti di potere tra colonizzati e colonizzatori anche nella medicina.

Confesso che solo la sua grande sensibilità ed apertura mentale, unita all’autorevolezza che aveva, mi permise di svolgere quelle lezioni potendone anche fare oggetto degli esami per la specialità e la mia tesi finale.

Anni dopo ci siamo ritrovati in Consiglio Comunale a Bologna sulle stesse battaglie civili, anche alle prese con l’emergere dei primi problemi riguardanti la gestione dei migranti con le loro patologie e tabù, la relazione tra religione e corpo femminile, il dibattito tra Diritti riproduttivi e tradizioni culturali.

Ma questa è un’altra storia; da parte mia, oltre al Maestro, all’amico, al collega, a chi mi onorò di introdurre con un saggio folgorante sulla sessualità sacra un mio libro sulla Grande Dea, il ricordo più profondo risale ad allora, quando sentii per la prima volta risuonare nell’Aula Magna della Facoltà di Medicina, quelle parole arcane che aprivano l’orizzonte della più attuale modernità.