Un giorno dopo aver abolito una delle conquiste fondamentali del movimento dei diritti civili degli afroamericani, la Corte suprema ha storicamente sancito l’uguaglianza degli omosessuali davanti alla legge federale. Lunedì la corte a maggioranza conservatrice presieduta da John Roberts aveva abrogato il Voting rights act che vietava ai singoli stati di modificare le regole elettorali senza previa autorizzazione del ministero di giustizia, la legge ottenuta da Martin Luther King per bloccare le tattiche discriminatorie regolarmente implementate negli stati del sud. Ieri ha invece prevalso la maggioranza moderata-progressista del massimo tribunale che ha ritenuto anticostituzionale il Defense of marriage act (Doma), lo statuto di «difesa del matrimonio» che definiva l’unione fra un uomo e una donna come unico matrimonio sancito dallo stato.

La sentenza di ieri, acclamata dalla folla che si era radunata davanti al tribunale di Washington sin dall’alba, e da attivisti del movimento gay in tutta America, rende legali ed equivalenti in tutto e per tutto ai fini della legge federale i matrimoni celebrati nei 12 stati dove sono legali le unioni fra persone dello stesso sesso. La decisione non modifica invece gli statuti dei singoli stati dove i matrimoni gay non sono consentiti; fa eccezione la California dove da dieci anni la questione del gay marriage è al centro di una lotta politica e legale iniziata nel 2004 quando il municipio di San Francisco aveva legalizzato “unilateralmente” le unioni gay e preso a celebrare migliaia di matrimoni, prima che le autorità e il governatore Schwarzenegger ribadissero il divieto. Erano seguiti numerosi ricorsi e un referendum popolare che nel 2008 aveva assegnato la vittoria ai “tradizionalisti”, finanziati da forze conservatrici e organizzazioni religiose di tutto il paese. Dopo quattro anni di ulteriori ricorsi nei tribunali d’appello, il referendum era stato invalidato e la pratica è passata al giudizio defintivo della corte suprema che nella sentenza di ieri ha però deciso di rimettere il giuidizio alle autorità californiane, di fatto avallando la precedente sentenza “favorevole”. I matrimoni nello stato più popoloso e fortemente simbolico per la tradizione di militanza gay, potrebbero così riprendere nelle prossime settimane.

Nel complesso la sentenza della Corte conclude un decennio chiave nel progresso dei diritti gay e sancisce ufficialmente le istanze del movimento. Decine di migliaia di coppie gay potranno ora usufruire delle stesse identitiche garanzie legali federali, compreso presumibilmente il ricongiungimento e la cittadinanza offerta a coniugi stranieri. Inoltre, pur non modificando gli statuti federalisti per cui ogni singolo stato ha l’autorità suprema di promulgare leggi in materia (e molti di essi negli ultimi anni hanno adottato versioni proprie del Doma), l’invalidazione della legge perché di evidente natura discriminatoria sancisce la supremazia costituzionale delle garanzie di uguaglianza e costituisce un assist cruciale per il movimento.

Gli statuti Doma e la loro adozione sotto forma di emendamenti costituzonali sono stati la chiave di volta della strategia conservatrice “preventiva” contro i matrimoni gay; già lo scorso anno però Obama aveva in qualche modo prefigurato l’inversione di rotta di Washington annunciando che il suo dipartimento di giustizia non avrebbe più attivamente applicato la legge. In senso più lato la sentenza di ieri sancisce ufficialmente un mutamento politico epocale riflesso da un opinione pubblica che in pochi anni è passata da fortemente ostile a largamente favorevole alle unioni gay. Un capovolgimento “culturale” repentino in gran parte effetto della spaccatura generazionale che è anche forte componente del successo di Barack Obama il quale non a caso ha di recente sposato apertamente la causa gay.

Al di là di quello che si possa pensare del matrimonio come istituzione, la sentenza conferma infatti che la sua interdizione a una porzione “arbitraria” della cittadinanza è una posizione insostenibile in una democrazia laica e liberale.