Sono di Pez di Cesiomaggiore. Sono entrato nel manicomio di Feltre alla fine del 1975 e ci sono restato nove mesi come studente della Scuola infermieri psichiatrici. 23 anni, avevo terminato il militare. La prima settimana studiammo le materie di base, anatomia e fisiologia. Dopo tre mesi, superai un esame. Pur non avendo terminato il corso, fummo mandati nei reparti psichiatrici maschili. Nei reparti femminili noi studenti maschi non potevamo entrare, vedevamo le internate negli spazi comuni. Mi avvicinai a un mondo di per sé alienante, senza preparazione se non la consapevolezza che dovevi porre una barriera tra te e loro, una distanza preventiva raccomandata come deontologia professionale.

C’erano 1500 degenti e 300 dipendenti, in parte suore di Santa Maria Bambina. I pazienti non potevano disporre di denaro, che fosse derivante da pensione o dote famigliare. A gestire i loro averi erano le suore: amministravano molte delle entrate e delle uscite dell’ospedale, le regalie, le oblazioni, e il lavoro gratuito dei pazienti sui terreni che l’antico Ospedale e la Chiesa avevano accumulato nei secoli e messo a reddito con il lavoro non retribuito dei matti. Gli internati erano lì per motivi sociali, medici, a volte economici. Tra le genti feltrine, anche fra la borghesia, non era raro privare i famigliari dei beni attraverso l’internamento, come non lo era destinare una ragazza al convento o un maschio al seminario.

Fra le centinaia di lungodegenti psichiatrici ne incontrai alcuni, internati fra gli anni Quaranta e Cinquanta con diagnosi di tare psichiatriche inesistenti e legalmente annientati. Era il caso di A. da Castelfranco, privato di ogni sostanza e internato per omosessualità, sepolto nel reparto 5 maschile per oltre trent’anni. Molte donne erano state rinchiuse dopo una vita di soprusi, matrimoni durissimi, sfruttamento, sfinimento puerperale. Il loro ricovero andava sotto le generiche definizioni di isteria, dissociazione, malattia mentale acuta. Alcune erano etichettate come schizofreniche dopo un parto. C’erano internate che di mestiere facevano le balie da latte: dopo tre-cinque anni, stremate e distrutte nell’animo, venivano internate per abulia autistica. Anche mia madre e alcune zie erano state definite affette da isteria postparto.

In occasione di un secondo ricovero, a una zia fu praticata la terapia succinilica, un vanto della neuropsichiatria locale degli anni Cinquanta: la succinilcolina veniva somministrata nel fluido spinale rachideo con un ago inserito sopra la prima vertebra; si riteneva che il farmaco, se ben dosato, avrebbe portato il paziente in stati progressivi di coma e che nel coma indotto il paziente psichiatrico ritrovasse l’equilibrio naturale, in particolare i maniaco depressivi. Nel manuale didattico queste teorie venivano spiegate insieme ad altre pratiche terapeutiche, anche più violente: elettroshock, insulinoterapia, cardiazolterapia. Alla base c’è l’intento di provocare convulsioni e coma terapeutico. «Piccole morti in cui alla fine il cervello ti torna a funzionare», mi disse un giorno Adriano, vent’anni di saggezza da internato, sempre in bilico tra ribellione spaccatutto e sindrome di Stoccolma verso medici e infermieri. Sindrome, quest’ultima, vantaggiosa per il personale nella repressione quotidiana e negli abusi perpetrati. Anche sessuali, da parte di alcuni infermieri nei confronti di donne rese docili dall’elettroshock o dal cardiazol.

Ricordo la violenza sessuale come atto punitivo verso donne che si ribellavano, come nel caso di L.: lesbica, classificata come schizoide e ricoverata ripetutamente con trattamento sanitario obbligatorio.
Negli anni Settanta, ad essere curati con le terapie dello shock convulsivo, elettrico o farmacologico non erano solo i malati delle classi sociali basse: le classi da reprimere erano altre. Come parte dell’apprendistato, noi allievi infermieri eravamo obbligati ad assistere e partecipare alle sedute di elettroshock. Una psicologa neoassunta si sentì male mentre un medico iniettava curaro nel braccio di un paziente prima dell’elettroshock. Assistere alle fasi preparatorie della piccola morte era guardare la morte stessa, riflessa nel terrore del paziente. Quando partì la prima scarica, la psicologa svenne. Il primario psichiatra la fece allontanare. Sin dal primo ingresso, nel manicomio di Feltre ti facevano firmare la clausola di non informativa nei confronti dell’esterno.

Dentro si vedeva di tutto, ma fuori non si diceva niente, nemmeno del lavoro nero e gratuito di dipendenti e internati: le infermiere andavano con le donne a fare le pulizie a casa dei medici, zappavano, accudivano animali, lavoravano nelle lavanderie dell’ospedale. Era ergoterapia. I malati maschi venivano mandati a coltivare poderi, costruire case, lastricare strade: lavori privati non retribuiti. Le colonie agricole dell’ospedale, enormi feudi molto redditizi, erano coltivate da braccianti – i matti de Pullir – che lavoravano la terra come professionisti. Sgobbavano, e la sera tornavano sfiniti in manicomio, senza alcun merito e alcun premio. Venivano sfamati e si buttavano in brandina. Se si temeva che potessero avere un qualche istinto sessuale, risvegliato dalla vita all’aperto, veniva dato loro del bromuro.

La violenza degli infermieri nei confronti dei malati era generalizzata e non poteva essere esercitata senza un tacito consenso di medici e dirigenti, nell’ordine esatto di gerarchia e potere. L’infermiere manicomiale aveva il ruolo di secondino e aguzzino. Eravamo negli anni Settanta. C’era violenza nell’esercito, nelle carceri, e anche in manicomio. C’erano denunce per violenze e ruberie, ma erano episodi isolati e alla fine non c’era un’immagine completa di quello che succedeva nell’istituzione. Gli stessi famigliari di una donna violentata e malmenata esitavano a denunciare. L’istituzione appariva forte. L’omertà si imponeva, insieme alla vergogna di avere parenti in manicomio.

Sono rimasto troppo poco al manicomio, ma ho conosciuto un caso di violenza sessuale sfociato in gravidanza e successiva dimissione prima del parto con diagnosi di guarigione. In tutto questo, la società civile era ignara e complice. La vergogna si alternava al divertimento quando i cittadini plaudivano alle evasioni per le vie del Borgo Ruga. Feltre era completamente asservita all’ospedale e alle tante opportunità economiche che offriva. Guardava allo psichiatrico come estensione degli affari e dell’occupazione, ma non poteva non percepire il dolore e le urla che raggiungevano i quartieri. La città non era porosa rispetto al manicomio. Al contrario, erano due mondi a sé. Con la solo coscienza che fuori, nella regione, era conosciuta come la «città dei matti».