La cultura popolare proveniente dal Giappone, in particolare quella prodotta attraverso manga e animazione, è oramai parte integrante dell’immaginario del nostro paese e del cosiddetto Occidente da decenni. È naturale allora che negli ultimi decenni studi sull’argomento si stiano moltiplicando, come si stanno moltiplicando le prospettive con cui si analizza un fenomeno vasto e plurimo che al suo interno contiene mondi.

Un approccio interessante e nuovo, almeno per quel che riguarda il nostro paese, ci viene fornito dal volume collettaneo Genere e Giappone (Asterisco Edizioni, 2023, 220 pagine) curato da Giorgia Sallusti, dove attraverso analisi di particolari manga e serie animate viene creata una cartografia di come le figure queer e le istanze femministe trovino spazio e vengano rappresentate nei media pop del Sol Levante. Secondo le parole della stessa curatrice, i saggi presenti in questo volume restituiscono un’idea di donna plurale, che rifugge e supera l’arcaica visione della moglie obbediente, si tratta infatti di figure femminili combattenti e non più passive.

Nel saggio che apre il libro, dedicato a Sailor Moon, Andrea Pancini sottolinea come nel mondo rappresentato nel fumetto e nella serie animata uscita nei primi anni novanta, le regole e i codici che impongono l’eterosessualità maschile come unico modello di riferimento viene decostruito, sin dal primo volume dell’opera creata da Naoko Takeuchi. In Sailor Moon, uno dei primi lavori di una certa portata culturale a far ciò, sono i personaggi maschili a dover essere difesi e non le donne. Inoltre è proprio nel manga che appare uno dei personaggi queer più famosi del mondo degli anime e dei manga, Sailor Uranus. Haruka, questo il suo nome prima della trasformazione, appare inizialmente mostrando un’espressione di genere maschile, quando però combatte come Sailor Uranus, assume un aspetto e un comportamento femminile e viene riconosciuta dagli altri come ragazza.

Questo slittamento di prospettive avviene, in modi molto diversi e specifici naturalmente, anche nei lavori del collettivo femminile di mangaka che si firma come CLAMP. Francesco Osmetti ci fornisce un’affascinante chiave di lettura nell’analizzare alcune opere del gruppo, ad esempio Il ladro dalle mille facce (1990), dove le quattro mangaka sovvertono i ruoli solitamente operativi all’interno della società giapponese, donando alle soggettività femminili un carattere privo di controllo e molto diretto, mentre a quelle maschili compiti di solito attribuiti alle donne.

Intraprendenza, forza ed autonomia sono anche le caratteristiche principali di Lamù, protagonista del manga omonimo (Urusei yatsura) di Rumiko Takahashi e in seguito della serie animata così popolare nella nostra penisola fin dagli anni ottanta. Nel saggio dedicato alla ragazza venuta dallo spazio che si innamora del terrestre Ataru, Giorgia Sallusti identifica la protagonista come un esempio di xenofemminismo a disegni. La figura dell’avvenente aliena cioè, scardina «i codificati ruoli femminili vincolati alla reazione e non all’azione, alla passività e all’idea di vittima indifesa, anche e soprattutto adoperando la violenza tradizionalmente appannaggio maschile». Lamù, sempre secondo Sallusti, lambisce lo xenofemminismo specialmente quando in un episodio clona il suo adorato Ataru e così facendo abolisce il genere e rifiuta l’ordine sociale ancorato a identità e ruoli definiti dalla società patriarcale giapponese.

Offre un interessante excursus storico il saggio di Mara Famularo che si focalizza sul Gruppo dell’Anno 24 e la rivoluzione nel mondo dei manga portato da questo gruppo di ragazze a partire dalla fine degli anni sessanta in poi. In quel periodo, disegnare manga era di fatto una delle poche possibilità di carriera per le donne, in un contesto che le voleva spesso solamente mogli, madri, casalinghe o, nei casi peggiori, oggetti sessuali. Yasuko Aoike, Moto Hagio, Riyoko Ikeda, Keiko Takemiya e altre mangaka aprirono il genere shojo, fumetti per ragazze, a tematiche più complesse e profonde. In storie di fantascienza o d’amore, spesso le due si combinavano, immaginarono e crearono personaggi «socialmente maschi, fisicamente androgini e psicologicamente femminili» scardinando quindi dualismi di genere e eteronormatività.

Il volume comprende anche saggi sul mostruoso femminile di Antonia Caruso, sull’estetica Kawaii di Marianna Zanetta, sulla serie Aggretsuko di Francesca Torre, su Chainsaw Man di Diletta Crudeli, su Pokémon di Alex Grisafi e sulla controversa figura della mangaka Kabi Nagata a firma di Virginia Tonfoni. Meritano un’attenzione particolare due interventi che criticano certa rappresentazione che avviene in alcuni lavori creati nell’arcipelago. Carla Gambale ci mostra come anche in un apparentemente innocuo manga e anime, C’era una volta… Pollon, dedicato alla vita degli dei dell’antica Grecia, sia insito un modo di rappresentare figure femminili fortemente sessualizzate, anche quando si tratta di bambine, e dove la violenza fisica e psicologia a loro carico viene vista come normale ed è mascherata dalla comicità. Il saggio che conclude il volume, di Asuka Ozumi, analizza due manga, Sensei no shiroi uso di Akane Torikai e Adabana di NON, opere che portano alla luce gli effetti e le conseguenze devastanti della violenza di genere, con riferimento specifico ad un problema che si fa sempre più pressante, quello della condivisione non consensuale di immagini intime online.