Edizione numero 35 per lo storico festival bretone Les Transmusicales di Rennes, al centro del mondo rock, pop e techno per un intenso weekend di concerti e dj set. Da giovedì 5 a domenica 8 sono sfilati di fronte a 30 mila persone circa 90 gruppi e artisti. Uno dei quali, il più insolito, ha marchiato a fuoco la kermesse. Il suo nome è Stromae, la sua eurodance sembra a prima vista estranea allo spirito della manifestazione. La direzione artistica è stata attaccata dagli habitué del festival e dai blogger underground; la sicurezza raddoppiata per far fronte al giovane popolo di questo fenomeno da milioni di visualizzazioni web e dischi venduti. Per capire come mai tutto sia invece andato liscio, e alla fine la presenza del dandy belga di origine congolese sia stata tutt’altro che fuori luogo, occorre chiedersi chi davvero sia questa star di Francia che solo ora inizia ad affacciarsi in Italia.

Il nome, innanzitutto. Provate a tornare a casa dopo due ore passate in una sala in cui 7 mila persone scatenate scandiscono «Stro – maè, Stro – maè»: vi rimbomberà nella testa per tutta la notte un indelebile «Maestro, maestro». L’aspetto, poi: 1,90 di altezza per un peso da fuscello di 70 chilogrammi, il rilancio del pantalone all’inglese, con tanto di cardigan da golf e automobile 500 Fiat originale per spostarsi a Bruxelles. Il ventottenne meticcio, bellissimo e sempre accompagnato da fidanzate che sono come minimo ex Miss Francia, colpisce l’occhio. Ma pure il cuore, perché i tormentoni di Stromae hanno un fascino che esula dalla cassa in quattro e dai suoni sintetici di chi vuole vincere facile. Sono malinconici e impegnati. Il successo dell’attuale Papaoutai cela un’infanzia da incubo. Il titolo significa «Dove sei, papà?», il testo parla del padre assente. «L’avrò visto sì e no una decina di volte”, spiega. La mamma fiamminga raccontava al bimbo che papà lavorava tanto e lontano. Invece se n’era andato di casa e basta, per morire di lì a poco vittima del genocidio del Ruanda. Lui soffre per quel genitore assente, cantando «Papaoutai» si contorce, urla.

E tutti ballano. Stromae è colto e attento alla chanson, ha una hit che si intitola Ave Cesaria, per la diva a piedi nudi capoverdiana Cesaria Evora. Parla di rhum, sigarette e malinconia. E tutti ballano. Lui pure, con scatti alla Jovanotti e con un gusto da sceneggiata, tra finti svenimenti, calzini griffati che toglie e rimette, tavolo, quello sì stile Cesaria, con bottiglia e bicchiere per la parti narrative da Brel in brasserie.

Cosa ci faccia qui lo spiega direttamente dal palco: «Venni al festival nel 2010, non ero nessuno e il direttore Brossard mi diede fiducia, con una residenza di tre giorni in una bellissima sala, l’Aire Libre, da 250 persone sedute. Ora sono famoso e ho voluto sdebitarmi con lui, con il festival, con la città». Parte C’est Stromae, un inno antimilitarista e contro il traffico d’armi, l’attacco ricorda persino The Call Up dei Clash, l’incedere è hip hop. E tutti ballano. Per quanto anomalo nel contesto del cartellone, Stromae vale anche come capofila virtuale di un filone meticcio che da sempre pervade gli incontri trans-musicali. Lo stesso a cui si ascrive il geniale live dei Meridian Brothers, che tra bassa fedeltà e senso dello humour, loop station e boogaloo portano in Bretagna una Bogotà colta e cosmopolita, abbracciata come una sorella dall’universitaria Rennes. La Yegros, dal canto suo, ripete come un mantra la sua provenienza, il nord dell’Argentina. Lo confermano l’approccio tropicale esplicito di strumenti e costumi , citazioni forró e un finale cumbia electro magari non originalissimo ma divertente. Digitale e analogico si intrecciano anche nel concerto del collettivo Ibibio Sound Machine, base a Londra, radici in parte nigeriane. La vocalist è la giovane e convincente Eno Williams, il chitarrista nientemeno che Alfred «Kari» Bannerman, pezzo grosso della scena highlife del Ghana con una lunga militanza negli Osibisa.

Detto delle esperienze meticcie, Les Trans sono sempre molto rock. Con due gioielli in vetrina. London Grammar è la band di Nottingham su cui tanto scommette, a ragione, la critica. E che già muove gente: grazie a loro il giovedì del Parc Expo sale di audience rispetto allo scorso anno. Sono giovanissimi, ma la voce di Hannah Reid mostra una maturità impressionante, oltre i paragoni con Florence Welch. Con la semplicità degli antidivi, i tre potrebbero davvero essere i nuovi The xx; si vedrà, per ora vale la pena di godersi l’album If You Wait. Ancora più piccoli, tutti tra i 13 e i 19 anni, sono The Skins, formazione a carnagione mista di Brooklyn che morde funk duro e rock tagliente, tra Sly Stone e i Rage Against The Machine. Quando la splendida voce della cantante Baily va a pescare Toxic di Britney Spears è il delirio. La notizia rimbalza in diretta sul “Tweet Wall” del festival, dove tutti possono postare al volo indicazioni per gli altri, foto di gruppo, critiche. Una trovata semplice e redditizia in termini di partecipazione.

Ancora in ambito rock non manca l’appuntamento Bosco Delrey, hobo di matrice rock’n’roll che fin dall’inizio scatta verso il funky, con un’agilità che ha indotto Diplo ad arruolarlo nella sua etichetta e i Beastie Boys a remixarlo. Sanguigno il set di Daughn Gibson, ex batterista metal ora in formato cantautore folk blues di temperamento, come pure ipnotizza l’audience il power trio Jacuzzi Boys, che dalla Florida sbarca sulla costa bretone con grande energia. L’elettronica, per finire. Live e dj set confermano la tendenza nu – disco dilagante, e segnano il ritorno dell’Italia al festival. Con Tiger & Woods, che nonostante qualche inconveniente tecnico salgono in cattedra con il calore di un suono da cui gronda una profonda cultura hip hop; e con il duo di residenza londinese Horse Meat Disco, ovvero Severino Panzetta e Luke Howard, affatto intimoriti dall’incarico di gestire la sala al termine del live di Stromae.