Se le tragedie di Shakespeare si prestano da sempre a infinite variazioni e riletture, tutta particolare è questa in scena ora a Catania prodotta dal teatro stabile insieme all’Ert, Otello (al teatro Verga), proprio attorno all’otto marzo. Ne è autore, oltre che regista e interprete nel ruolo di Jago, Luigi Lo Cascio, che oltre ad essere attore importante, è un intellettuale che si interroga sui nodi civili fondamentali. La figura del Moro di Venezia si trova così focalizzata in uno dei suoi nodi centrali, prescindendo quasi, per quanto è possibile, da quelle che pure sono fondanti nella tragedia shakespeariana: dal colore della sua pelle alla sua importanza militare nelle guerre della Serenissima, alla generica «gelosia».

Il nodo vero che si fa protagonista, è quello tra maschile e femminile, nel rapporto «d’amore» che lo lega alla giovane moglie Desdemona, visto proprio dalla parte di lui. Che la ama e arriva ad ucciderla, così che lo sviluppo del giallo è un percorso nei meccanismi tutti maschili e personali di un uomo che uccide per troppo amore, o piuttosto perché non è in grado di vivere senza le sicurezze che si è creato proprio nella costruzione di quel sentimento, secondo le sue proprie necessità. È un’ipotesi di percorso, e di lavoro, che più d’uno ha indicato e suggerito per superare il fenomeno atroce del «femminicidio», e che trova nella riscrittura di Lo Cascio una sua originale applicazione. Perché quell’angolo visuale trasforma la tragedia shakespeariana cui siamo abituati, ne taglia molti momenti concentrandosi nello svilupparne altri, che riempiono in maniera claustrofobica e interiore l’intero e oscuro spazio visuale. Dentro il quale le luci di Pasquale Mari squarciano focus e primi piani dentro una galassia di segni e suoni disegnati e animati in immagini sempre cangianti di Nicola Console e Alice Mangano. Mentre le musiche di Andrea Rocca accompagnano quella interiore discesa agli inferi con accenni, a momenti espliciti, verso il melodramma. Che la tragedia si compia dunque, e si sveli il movente di quella passione assassina.

Ma c’è ancora un elemento, nella tavolozza approntata da Lo Cascio, che ne rende assieme l’aspetto coscienziale di degrado e di antico mistero. È la lingua, in versi, di un siciliano antico e oscuro, comprensibile anche fuori dall’isola attraverso i corpi degli attori, anche se rischia di lasciare insoluti qualche passaggio e qualche illuminante fulminazione. Parlano tutti siciliano i pochi personaggi sulla scena; sono quelli maschili, il mondo degli uomini: Otello, Jago, e la figura inventata del «narratore», una sorta di Araldo o Messaggero della tragedia greca, che raccorda, spiega o introduce qui (con la prestante autorevolezza, fisica e verbale, di Giovanni Calcagno) i gradi e le motivazioni di quel perverso tragitto.

Unica a parlare una lingua diversa, un chiaro e nitido italiano, è Desdemona, l’oggetto del desiderio e dell’abiezione, che percorre un percorso inverso, dalle accuse ingiuste ad una piena consapevolezza dell’incastro mortale. E Valentina Cenni dà una prova molto bella di una dignità che solo la violenza cieca può distruggere. Ma l’epicentro della tragedia resta ovviamente Otello, cui Vincenzo Pirrotta presta fisicità e vigore, scoprendone insieme tutte le debolezze, e le inadeguatezze, che la sua posizione fieramente «maschile» comporta. Pirrotta e Lo Cascio avevano già lavorato assieme, non solo agli esordi della loro carriera, ma più recentemente nella Diceria dell’untore da Bufalino, dove era il primo a firmare la regia.

Qui il protagonismo di Otello permette a Pirrotta per la sua ascesa agli inferi un intero repertorio di tradizioni e retaggi che la stessa lingua evoca, dai combattimenti dei Pupi al Cunto, e poi dall’horror al noir cinematografico. Danti al quale Jago/Lo Cascio oppone la freddezza razionale del mandante rispetto al killer, in un fascinoso scontro da grande schermo. Meno convincente è la «durata» (circa due ore ininterrotte) di quell’attraversamento dei meandri oscuri della psiche otellesca.

È molto bello l’inizio, con lo scambio di messaggi amorosi prima del matrimonio, tra il condottiero Moro e la giovane bellezza nobile e veneziana: scambi e affetti che avvengono attraverso la scrittura su dei fazzoletti ricamati, a segnare già il tessuto di quella maledizione che ne scatenerà l’epilogo tragico: intuizione degna delle pareti di fazzoletti che Carmelo Bene erigeva nel suo Otello. Così come è abbagliante il finale, lungo il quale l’uomo e la donna salgono strisciando, quasi fosse la Scala santa di antiche devozioni cattoliche, al talamo sanguinario in cui si compie la morte di quell’amore , e della confusa mascolinità di Otello. Tra questi momenti chiave, il percorso ha ansiti e dubbi, formalizzati nella coincidenza tra il paladino Orlando e il folle Otello, lanciato sulla luna a ritrovare il bandolo del suo amore perduto. Una follia e una «furia» che poeticamente ci restituiscono la brutale cronaca nera, senza mascherarne l’atroce carica di dolore. Per i personaggi, come per gli spettatori.