«Il male accanto», il lato oscuro del Varesotto
Narrativa «Il male accanto» di Massimiliano Comparin per Jouvence
Narrativa «Il male accanto» di Massimiliano Comparin per Jouvence
Alla fine, la giustizia si arena. La «banalità del male» sfugge alla legge: per il ragazzo rapito e ucciso resterà solo il dolore infinito dei genitori, con cui il magistrato può appena scusarsi. La montagna di carte nel faldone non partorisce la condanna dei responsabili. E tutti i morti innocenti seppelliscono anche le vecchie storie, perché paradossalmente resta viva la memoria del pentito di ’ndrangheta: l’unico che illumina, a modo suo, i retroscena.
Massimiliano Comparin con Il male accanto (Jouvence, pp. 306, euro 19) incrocia l’autobiografia di chi è cresciuto in via Sardegna con i verbali di Antonio Zagari, che dichiara davanti al pm Armando Spataro. Due racconti che procedono lungo il binario parallelo di 47 capitoli. Da una parte, i ragazzini fra l’aia e l’aula, i campi e la chiesa. Dall’altra, la criminalità organizzata che prende il posto degli «spalloni» e invade il borgo di eroina. Una storia padana capace di imbarazzare i leghisti locali che hanno fatto carriera, nutrire qualche residuo di nostalgia e soprattutto affidare alla «letteratura» perfino la cronaca.
Comparin è stato uno dei balòss che negli anni Settanta animavano un angolo di Varesotto, dove si coltiva la terra e si contrabbanda dalla Svizzera. Regiù (in dialetto il «capo di casa») recita da protagonista accanto a Ròss e Pera, gli inseparabili coscritti classe 1960 che incarnano rispettivamente l’inerte arrendevolezza e la sfrontata volontà di far soldi con ogni mezzo. Sono tre adolescenti che scorrazzano nella cornice di famiglie, ragazze, prete e bar di paese. Il protagonista abita in «una vera schifezza», cresce come può, studia grazie al fratello muratore e mantiene una condotta morale che al catechismo unisce la pratica intuizione del male. È predestinato a metter su famiglia con Maddalena, ma anche a ostinarsi (ben prima di diventare magistrato) dalla parte giusta fino alle estreme conseguenze.
Il punto di svolta è il rapimento di Federico strappato a forza dalla bicicletta mentre rincasava da scuola, rinchiuso due settimane nel baule di un’auto, infine ucciso e dato in pasto ai maiali.
Quell’episodio criminale rappresentava la spia di ben altro. L’«isola felice» che cresce con l’industria delle scarpe, la squadra di basket e l’edilizia dei geometri galleggiava su di un mare di soldi, veri o falsi, comunque sporchi. La mafia calabrese ha messo radici e si nutre della meglio gioventù, arruolata come Ròss o avvelenata dalla droga. Ma trova anche terreno fertile per quelle attività «parallele» che riciclano denaro fino a contaminare tutto.
Il pentito Zeta regala agli atti una sorta di «romanzo di formazione» del giovane mafioso allevato alla scuola criminale, al lavoro parassita, alla vita delinquente. E nello stesso tempo apre squarci di verità, come quando cita il colonnello dei carabinieri di Padova che lo «avvicina» in una reciproca contaminazione di ruoli.
Sebbene a tratti risulti un po’ pesante, il binario dei verbali viaggia a tutta velocità verso scenari più attuali. Il Nord cannibalizzato dai miracoli frutto dei professionisti della zona grigia, con una vocazione sussidiaria ai peggiori interessi, pronto a spacciare imprese come a prestare banche. Insomma, Comparin sembra indicare fra le righe l’inquietante strabismo dell’intero lombardo-veneto: leghista nel rivendicare un’identità di sicurezza, più che mafioso nel «modello Duemila» delle grandi opere per piccole consorterie.
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