Mentre nel 1920 Francis Scott Fitzgerald dava alle stampe l’estetizzante Di qua dal paradiso, John Dos Passos, nato nel Midwest nel 1896, come Fitzgerald, pubblicava One Man’s Initiation – 1917, la cronistoria della sua esperienza sul fronte italiano, cui faceva seguire un’altra storia di guerra intitolata Three Soldiers (’21), entrambe un po’ riadattate a scopi suoi personali, non sempre rispondenti ai dati storici che possediamo oggi. Con Hemingway – il quale, nato vicino a Chicago nel 1899 e, come Dos Passos, volontario nell’American Red Cross, tramite l’alter ego Nick Adams nel 1924 dava voce al suo trauma nelle trincee nei racconti di In Our Time – il gruppo dei campioni western del Modernismo narrativo statunitense si veniva così a formare. Mancava all’appello il sudista William Faulkner. Faulkner, infatti, volontario anch’egli nell’aeronautica canadese, esordirà solo nel ’26 con il romanzo La paga del soldato.
A differenza di tutti costoro, Dos Passos aveva una vocazione immediata per la scrittura, era veloce e non ossessionato dalla perfezione stilistica che, a lui, veniva di getto. Al contempo – e di nuovo a differenza degli altri – aveva già maturato un approccio alle cose del mondo di tendenza decisamente marxista (per inciso, e significativamente, a Milano, già pensando al fordismo e alla mitica Ford, per esempio, di Steinbeck, tanto per fare un nome, «Dos» cantava: «Fiat 4, meccanico di Milano / quando nascerà la mia Fiat 4?»), una scelta audace, quella a sinistra, che Fitzgerald si permetterà solo con il suo controverso e più volte rimaneggiato capolavoro: Tenera è la notte (1934).
I due primi romanzi di Dos Passos sono solo un assaggio di ciò che egli riuscirà a creare nel dopoguerra. Infatti, eccolo di nuovo in libreria nel ’25, lo stesso anno del Gatsby, con il prestigioso Manhattan Transfer in stream of consciousness e, poco dopo, con l’opera sua maggiore, venuta alla luce a puntate dal ’30 al ’36 (Il 42° parallelo, Millenovecentodiciannove e Un mucchio di quattrini). Parliamo, naturalmente, del labirintico e sperimentale U.S.A., un coltissimo tour de force spumeggiante di nuovi espedienti strutturali, funzionanti a vari livelli, dal cinematografico (gli ellittici e cronachisti «Cine-giornali», inclusivi di allusive canzonette allora alla moda); al fotografico (il cosiddetto «Occhio fotografico», consistente di brevi pezzi in prosa lirico-impressionista). U.S.A. La trilogia, il capolavoro amato dai nostri intellettuali degli ultimi anni del Ventennio, è adesso ristampato da Mondadori nella vecchia traduzione di Cesare Pavese e Glauco Cambon e con la cura, accompagnata da un’introduzione, di Cinzia Scarpino e Sara Sullam («Oscar Moderni Baobab, pp. 962, € 35,00).

La Grande Depressione
Si trattò allora – nei miserandi anni trenta, oppressi dalla Grande Depressione economica – della denuncia senza remore di un andazzo ormai incurabile: affarismi, imperialismi, democrazia in bilico, capitalismo senza scrupoli, povertà diffusa, e l’indegno fordismo, appunto. Insomma, la trilogia veniva a incarnare il drastico fallimento del Sogno americano, in quanto vi si registrava una vicenda di graduale decadenza, rincorsa dagli antefatti (Theodore Roosevelt, parente del futuro FDR e accalappiatore del Canale di Panama e di ben altro, moriva il 6 gennaio del 1919) alla cronaca allucinata della guerra in Italia, in Francia e altrove (i. e.: «Avez-vous fiancé? Cela ne fait rien | voulez-vous coucher avec moi ce soir? | Oui, oui, combien?». «Aiutate l’Amministrazione Annonaria Denunciando i Profittatori di Guerra», «Lenin Fugge in Finlandia»); ai postumi immediati, a iniziare con l’arrivo trionfale di Woodrow Wilson a Roma, proveniente da Parigi; fino ai postumi più distanziati, come il New Deal traballante di Franklin Delano Roosevelt. Difficile seguire e riassumere tutti gli intrecci di questa epopea amara, affollata da «biografie» di personaggi (un genere di indiscussa pertinenza anglosassone) che soffrono o vincono, soldati che muoiono o vincono sulla morte, affaristi (gli unici sempre vincenti), «malfattori plutocrati» (sempre vincenti) e gente comune che ne paga sempre le conseguenze. Il lettore deve cavarsela da sé nel pungente ginepraio che è U.S.A.. Ma la saga. con i suoi barlumi fugaci e luminosi nei vari tunnel in cui si inoltra, va letta – lo raccomandiamo – per intero, e dall’inizio.
Nella presente occasione vale la pena soffermarsi sull’episodio «Woodrow Wilson» (il «maestrucolo Wilson») in visita a Roma, il ‘reo’ (per Dos Passos e gli altri) che portò l’America in una guerra immonda (una «meraviglia»,«La guerra è la salute dello Stato») dopo la sua seconda elezione nel 1916, sbandierata con lo slogan ingannevole «Salviamo il mondo per la Democrazia» (o per i «prestiti Morgan»?) e sottovalutando il disappunto dei tedeschi-americani (magari di recente immigrazione), i quali sul fronte si trovarono a uccidere i propri fratelli: «A morte gli unni».
Ma non fu solo una questione di tedeschi. Infatti, nei «cinegiornali» si canticchia quasi in mormorio: «Se non ti vanno le stelle della gloriosa bandiera / allora ritorna al tuo paese oltremare / al paese dal quale sei venuto / qualunque sia il tuo nome // Se non ti vanno i tre colori / non essere un serpente in seno / non mordere la mano che ti nutre». Sciovinismi, purismo, nazionalismo anti-migratorio, presunto anarchismo (Sacco e Vanzetti sono già nell’agenda di questa America, per così dire, virtuosa). La guerra l’aveva vissuta anche lui, Wilson, al punto che, ormai invalido, se ne andò all’altro mondo nel 1924, a seguito degli strascichi di un ictus, subìto mentre era in carica (al suo posto governava sua moglie). Il suo fu il più grave caso di «inabilità presidenziale», emendato solo diversi decenni dopo quella sfortunata scomparsa di scena.
L’episodio romano è poco noto al grande pubblico ed è anche poco studiato dalla scienza storica. In 1919, Dos Passos ce ne dà una cronaca fedele, quasi di prima mano. Dick Savage, alter ego del suo creatore, è il personaggio chiave in questa occasione. Egli è il testimone, il pacifista, colui che avrebbe cercato «qualunque mezzo» per metter fine alla guerra («questa non è una guerra è un manicomio» o, aggiunge, un «puttanaio»), ed è colui che ci trasmette in un flash ben focalizzato su quella visita trionfale, che si trasforma inaspettatamente in uno spettacolo da bagno di folla sulla scena stanca, ma festosa e devota alla patria (nonostante il serpeggiante anarchismo), dell’antico – e ormai estinto – imperialismo romano. Vediamola, quella scena, nell’ottica di Dos Passos/Dick Savage.
O meglio, si vedano prima i filmati d’epoca circolanti oggi su internet, documenti originali, in cui non si capisce chi è il tale e chi è il talaltro. Proviamo a immaginare: il re soldato, la regina Elena, il sindaco di Roma (Prospero Colonna di Paliano), il primo ministro (Emanuele Orlando), l’archeologo Giacomo Boni, e naturalmente Wilson, il salvatore e, all’epoca, «l’uomo più potente del mondo», anzi il «primo presidente che avesse mai lasciato il territorio degli Stati Uniti durante il periodo di carica». Era infatti salpato per «la Francia a bordo della George Washington» (strane coincidenze onomastiche!). Nell’accelerazione della pellicola, questi personaggi/marionette suscitano qualche brivido comico alla Charlie Chaplin, e, ammettiamolo, trasmettono fotogrammi di patriottica emozione. Quella era, sì, un’altra Italia.

L’occhio fotografico di Dick Savage
Ma vediamo ora, attraverso l’occhio fotografico di Dick Savage – che, nel frattempo, s’è fatto un grand tour d’Italia alla Ezra Pound (Genova, San Zeno a Verona, Bologna, le torri di Pisa e Assisi, il Lago di Nemi, il Foro romano …) – come più o meno andarono le cose: «I tre giorni seguenti – si racconta – furono tutti presi dalla visita a Roma del presidente Wilson, Dick fu invitato a varie cerimonie ufficiali, ascoltò un mucchio di discorsi in italiano, francese e inglese, vide una caterva di cappelli a cilindro e di onorificenze e si sbracciò a salutare a dritta e a manca, e gli venne persino il mal di schiena, a furia di stare in una rigida posizione militare. Al Foro romano si trovava abbastanza vicino al gruppo del presidente da sentire l’ometto baffuto che additava le rovine del tempio di Romolo dire in un inglese imparaticcio: ‘Qui tutto ha rapporto con gli eventi della grande guerra’. Ci fu un zittio mentre coloro che si trovavano nei gruppi periferici delle autorità tendevano le orecchie per sentire quello che avrebbe detto il signor Wilson. ‘È verissimo’ rispose Wilson con voce misurata. ‘E noi non dobbiamo considerare queste rovine come semplici pietre, ma come simboli immortali’. La comitiva emise un lieve mormorio di apprezzamento …”.
Si noti la ancora bella traduzione, la descrizione attenta dei Fori, il valore di documento di questo stralcio, il suo combaciare con i filmati d’epoca, da vedere magari al rallentatore. Per esempio, il vecchio signore, l’esperto di archeologia, in cappotto chiaro, capelli bianchi e berretto, circondato dal protagonismo delle tube degli accompagnatori (incluso Wilson), è, naturalmente, Giacomo Boni, lo scopritore del Lapis Niger, che masticava – allora cosa rara in Italia – un po’ d’inglese perché era stato sovrintendente a Venezia dove gli Inglesi e i rari Americani erano di casa (Pound lo conobbe bene, ancora più vecchio, ma a Roma non a Venezia, lì dove, in U.S.A., lo inquadra Dos Passos).
A rileggerlo dopo tanti anni, si può riconoscere che U.S.A. è un caleidoscopio raffinato, un gigantesco collage musivo, soprattutto di quel 1919, un anno così avventuroso sul piano diplomatico e così decisivo. Gli storici nostrani, e di altrove, dovrebbero leggerlo anche loro. Lo scrittore (magari testimone o non testimone diretto) arriva prima dello storico a cogliere i fatti del giorno, dell’anno, dei secoli. C’è sempre da rinvenire un qualcosa di non registrato in altre pagine (ma oggi, bisogna dire grazie a quegli splendidi primi filmati muti). Gli orticelli non sono mai recintati e privi di scorciatoie e feritoie e squarci nella rete divisoria: passaggi, vasi comunicanti, che furbesche talpe cieche percorrono di notte, venendo poi alla luce con un impagabile bottino. E tutto ciò (il prezioso bottino) all’insaputa di tutti.