Con l’investitura a Giuseppe Conte, il Movimento 5 Stelle smette ufficialmente di essere una forza politica «leaderless», senza capi. Si dirà che ciò non corrispondeva alla realtà fin dall’inizio, da quanto Beppe Grillo (e Gianroberto Casaleggio) si era tenuti la possibilità di dire l’ultima parola e di tirare il freno a mano quando gli pareva che le cose non andavano nella direzione auspicata. Fu proprio Casaleggio Senior, ad esempio, a dire alle decine di spaesati esordienti in parlamento, nel marzo del 2013, che erano liberi di fare tutto tranne che di allearsi col Pd.
Ancora, a settembre del 2017 gli iscritti alla piattaforma Rousseau scelsero Luigi Di Maio come «capo politico». Ma anche in quel caso si disse che la carica era richiesta dalle regole che disciplinavano i partiti, anche se Di Maio la usò per accentrare le decisioni chiave e gestire le trattative più delicate. Avvenne anche in occasione della nascita del governo col Pd, nell’estate del 2019, quando Di Maio rischiò di venire travolto dall’onda nuova dei parlamentari che chiedevano di sbarrare le porte a ogni ritorno di fiamma con la Lega di Salvini. Lui trasformò la difficoltà in forza, mettendosi a valle di quel moto interno e guadagnando la poltrona alla Farnesina che ancora oggi conserva, da highlander di questa legislatura: è l’unico ministro a essere rimasto in carica in tutti e tre i governi e con tre diverse maggioranze.

Ma questa volta è diverso. Conte viene convocato e incoronato, non scelto come primus inter pares. Detiene (e rivendica) il potere senza condizioni che si riconosce a colui il quale è considerato l’ultima spiaggia per il Movimento 5 Stelle a rischio implosione o lento sgretolamento. Solo Conte può salvare il M5S e Grillo in persona ha scelto Conte per trasformare il M5S in una forza ecologista, a cavallo tra il mondo anche radicale delle lotte ambientaliste e l’idea obamiana della green economy.

Grillo vuole riazzerare tutto, e per ridisegnare il M5S chiede che il nuovo leader disponga di pieni poteri. Di Maio, per l’appunto, ha mostrato di averlo capito bene quando ha parlato di M5S «europeista, liberale e moderato». È un’altra cosa rispetto a quella proposta da Grillo e Di Maio sa che se si attenua anche di poco il grado di unanimità attorno alla mission politico-culturale del nuovo M5S forse si evita che abbia carta bianca. Ma se Conte diventa così forte cosa succederebbe se dovesse entrare in conflitto con Beppe Grillo? Non avendo il M5S mai avuto un leader a tutto tondo, la domanda è obbligatoria.

L’altra questione non scontata riguarda la struttura di vertice che affiancherà il capo. Se Conte dovesse rigettare in toto l’esistenza del comitato dei cinque uscito dagli Stati generali e deputato a dirigere il M5S balcanizzato prima della crisi di governo, sarebbe l’uomo solo al comando che Grillo auspica. Ma gli converrebbe realmente? Non potrebbe invece giovarsi di una specie di segreteria cui delegare alcune questioni e del quale servirsi per mantenere i rapporti con la base e con il panorama multiforme degli eletti?

Infine, c’è appunto la questione dei parlamentari. Ieri è circolata per la prima volta la possibilità (fino a due giorni esclusa categoricamente) che Grillo possa perdonare i dissidenti e reintegrarli nei gruppi. Il cambio sarebbe dovuto al fatto che le espulsioni vacillerebbero dal punto di vista legale. Conte, da giurista, dovrà misurarsi anche con questa grana. È un tema che (come la scelta di mettere sotto «contratto di servizio» Rousseau per limitarne l’impatto) solo in prima battuta riguarda aspetti tecnici, è anche politico. Perché il nuovo leader, deve scegliere: se liberarsi della zavorra dei parlamentari che non sono convinti fino in fondo del nuovo corso o piuttosto accettare di farci i Conti per mantenere forza parlamentare e finanziamenti ai gruppi.