Il lungo ’900 di Taranto. Tra Cito e l’Ilva
Con Napoli, Taranto rappresenta quel Novecento che nel sud Italia tarda a passare. Per una singolare concezione meridiana del tempo, forse, ma soprattutto per il suo essere segnata, in maniera […]
Con Napoli, Taranto rappresenta quel Novecento che nel sud Italia tarda a passare. Per una singolare concezione meridiana del tempo, forse, ma soprattutto per il suo essere segnata, in maniera […]
Con Napoli, Taranto rappresenta quel Novecento che nel sud Italia tarda a passare. Per una singolare concezione meridiana del tempo, forse, ma soprattutto per il suo essere segnata, in maniera irrimediabile, dalla grande industria e dalle politiche di sviluppo che l’hanno determinata. Con il capoluogo partenopeo, è anche la città più ricca di contraddizioni, non ultima quella tra salute e lavoro, simboleggiata dalla battaglia attorno al futuro dell’Ilva. È anche una città fallita, Taranto, per via delle razzie pre-Tangentopoli e per quello che è accaduto dopo, con la presa del potere da parte del telepredicatore Giancarlo Cito, ex picchiatore fascista poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Alessandro Leogrande ha vissuto la stagione peggiore della sua città, quella del sacco, e per un breve periodo la speranza della rinascita, con l’elezione a sindaco del «medico dei poveri» Ippazio Stefàno. Ora osserva a distanza la crisi dell’Ilva, emblema del fallimento delle privatizzazioni all’italiana più che delle partecipazioni statali come ancora qualcuno vorrebbe farci credere, e nel suo Fumo sulla città (Fandango, pagg. 270, euro 17,50) prova a riconnettere le due facce di cui è composta la medaglia tarantina: quella economica, appunto, e la politica. Se non si mettono in relazione, ci dice, «si capisce ben poco della Taranto odierna».
In tre reportage lunghi scritti in altrettante epoche diverse e ben poco ritoccati, Leogrande intreccia queste due facce della medaglia nel tempo, abbandonando la retorica da eterno presente troppo spesso abbracciata da un certo mainstream mediatico, e le mette in prospettiva arricchendole di dettagli – spesso basati su ricordi personali la cui precisione non è requisito essenziale, com’è normale che sia in un libro che non vuole essere tout court giornalistico.
Se nei primi due scritti la grande ossessione è Giancarlo Cito – un personaggio le cui gesta andrebbero rievocate ogniqualvolta pensiamo che la cultura squadrista sia seppellita dalla storia – nell’ultimo le parti si invertono. Nel 2012 Cito – uscito dal carcere e ineleggibile – riprova a tornare al potere attraverso il figlio, suo clone senza autonomia. Ma al ballottaggio la spunta il candidato della sinistra radicale Stefàno. A questo punto, il problema della città diventa la crisi economica, che assume le sembianze della sua fabbrica simbolo. Leogrande pensa – in sintonia con il Loris Campetti di Ilva connection (Manni ed.) – che per Taranto non ci sarebbe futuro senza la fabbrica, che essa va però trasformata e che per rimetterla in sesto non si può che toglierla dalle mani di chi l’ha ridotta nelle condizioni in cui si trova: la famiglia Riva. È quest’ultimo il capitolo ancora da aggiungere alla storia di Taranto.
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