«Quello che mi piace nei lavori di Nandipha Mntambo e di Donna Kukama è la poesia di ciò che non è evidente», afferma Simon Njami curatore della bipersonale La matière vivante, prima mostra italiana delle artiste africane già note sulla scena internazionale, organizzata dalla galleria Continua negli spazi di piazza della Cisterna (fino al 31 agosto). «Ho voluto portare a San Gimignano uno sguardo femminista, non solo femminile, e un po’ d’Africa o meglio di Sudafrica perché di Afriche ce ne sono tante, diverse per lingua, cultura, religione, etnia. La mia selezione, in realtà, dipende soprattutto dal lavoro di queste due artiste – donne, africane e nere – della stessa generazione, nate nel periodo dell’apartheid, circostanza che implica una dimensione politica più o meno manifesta nella loro opera e nell’uso che fanno della materia per raccontare una storia che non può essere mai la stessa».

PUR RIFERENDOSI al presente, la «materia viva» citata da Njami nel titolo della mostra è strettamente connessa con una memoria che appartiene a una cronologia estesa, più o meno lontana nel tempo, con cui Nandipha Mntambo (Mbabane, eSwatini 1982, vive e lavora a Johannesburg) e Donna Kukama (Mafikeng, Sudafrica 1981, vive e lavora tra Berlino e Johannesburg) «giocano all’infinito». L’esperienza umana nei suoi diversi innesti, dal caos primordiale alla percezione di un ordine formale, è una possibile traccia comune nella negoziazione di un metalinguaggio in evoluzione, percorribile attraverso i rispettivi elementi chiave che lasciano spazio alla libera interpretazione del singolo.

PER DONNA KUKAMA si tratta di esplorare un codice linguistico in cui sulla tela viene lasciato affiorare il groviglio di segni apparentemente incomprensibili che insieme a grafite, pastello a olio e colore acrilico contengono, di volta in volta, rabbia, traumi, incantesimi, bugie e anche calore e memorie, come nell’installazione d’acciaio tagliato al plasma The walls refused to forget their bright bullet-shatters and loud-blood-splatters (2019). Un sistema di comunicazione che, per il curatore, è molto più interessante di un qualsiasi alfabeto classico, perché i suoi segni sono aperti. «Un linguaggio che è tutto da inventare, come il futuro».

GENDER, IDENTITÀ, vita e morte – in un continuo sconfinamento – sono più esplicitamente gli argomenti d’investigazione di Nandipha Mntambo anche nei recenti lavori pittorici della serie Illumination, ma soprattutto nel suo focalizzarsi sul corpo attraverso l’uso della performance e della scultura. In An Ode e The lover, entrambe del 2020, le pelli (così come i peli di mucca di Quiet acts of affection XVII) sono investite della ritualità che appartiene al potere sciamanico. L’artista indossa le sue sculture-armature di pelle nel video di poco più di 2 minuti Ukungenisa (2008), che nella lingua zulu significa importazione/ingerenza. L’esperienza umana, in questo caso, viene messa in scena nell’arena vuota dove l’artista è, allo stesso tempo, donna-matador e toro.

NELLO SFIDARE GLI STEREOTIPI i suoi gesti costruiscono lo spazio: c’è l’eleganza, la titubanza, la paura e anche la furia. Un corpo a corpo tra sé e sé, prima ancora che tra sé e l’altro – «lei sta combattendo con i suoi stessi incubi», sottolinea Simon Njami – che Mntambo esprime attraverso il movimento delle mani, lo sguardo fiero, i passi dei piedi calzati dalle ballerine (che alludono agli zoccoli del toro) e anche la vestizione con i lunghi lacci tirati per stringere il bustino di pelle di mucca, proprio come nel XIX secolo venivano stretti (tanto da far mancare il respiro) quelli del corsetto sopra la crinolina. «Potrebbe essere un nuovo gesto – continua Njami – metafora del processo creativo dell’arte che di per sé è un atto solitario ma nel momento in cui, come in questo caso, l’artista mette se stessa nell’arena, diventa pubblico». Per cercare di guardare oltre, bisogna ripulire lo sguardo dalle convenzioni.