Il limite è condizione delle forme di esistenza
SCAFFALE A proposito di «Animalia», di Alberto Giovanni Biuso (Villaggio Maori)
SCAFFALE A proposito di «Animalia», di Alberto Giovanni Biuso (Villaggio Maori)
Evoluzionismo, etologia, ecologia, genetica, ermeneutica. Questi e altri ambiti fondano il discorso che Alberto Giovanni Biuso conduce in Animalia (Villaggio Maori Edizioni, pp. 186, euro 16), pervenendo alla tesi che tra le forme d’esistenza del pianeta intercorre sempre un rapporto orizzontale. Tutte le forme sono identiche nella comune condizione di viventi e tutte differiscono l’una dall’altra sviluppando a modo proprio ciò che è comune. Le gerarchie di valore tra gli enti non hanno dunque ragion d’essere.
Restringendo il campo al regno animale, Biuso mostra come l’umano comprenda davvero se stesso «soltanto a condizione di conoscere le radici biologiche dei comportamenti individuali e collettivi», ovvero la struttura unitaria, la «naturacultura» che lo distingue ma anche lo congiunge e apparenta agli altri animali. Questa struttura infatti, come «soggettività corporea e desiderante», «non necessariamente coscienzialistica» e fatta di senso del tempo, è presente in tutto il regno animale.
DA QUI L’URGENZA e la necessità di disfarsi del paradigma antropocentrico dominante, iniziando dalle concezioni che lo rinsaldano (creazionismo, umanismo, specismo). Concezioni con cui l’uomo si autoqualifica signore del mondo e legittima qualsiasi azione serva a mantenere il suo regno. Sfondando ogni limite.
Homo sapiens infatti va sempre oltre. Un oltre che potrebbe infine significare dopo e senza l’umano. Perché l’effetto delle sue azioni è non solo la conservazione della specie ma anche la dissoluzione delle condizioni dalle quali essa stessa si origina. Ormai abituato alle lenti distorte dell’antropocentrismo, egli non vede come l’ordinamento organico e inorganico dia corpo alla sua essenza e non vada quindi stravolto.
Da una diagnosi rigorosa l’antropocentrismo risulta una potente e nefasta negazione della comunanza in cui ogni cosa avviene e si relaziona al mondo. Il suo meccanismo di gerarchizzazione investe tutto: separa l’umano dagli animali, oscura la sua animalità e presenta la realtà restante come fosse uno scarto, un corpo dissanguato che non ha senso se non quello di adattarsi alla vita di un’unica specie.
IL PRIMO MODO per disintossicarci da questa visione del mondo è metterci nell’ottica opposta. Dalla prospettiva antropodecentrica si risolvono infatti scissioni tenaci nella storia del pensiero come il dualismo uomo-animale, cultura-natura, mente-corpo, innato-appresso; si impara a coniugare ogni termine con tutti gli altri e a riconoscere come ogni cosa sia ontologicamente unitaria mentre la sua fenomenologia è complessa e molteplice.
Cambiando prospettiva impariamo anche a vivere con gli animali, a educare non solo la nostra fisicità al fine di convivere tra noi umani ma anche il nostro rapporto complessivo con l’animalità estesa e plurale di cui siamo parte. Scopriamo come l’appartenenza a un regno comune limiti ciò che possiamo fare delle altre specie; come curarci di loro significhi curarci di noi; come macellazioni, vivisezioni, biotecnologie risultino controproducenti pure per noi. La cultura serve a questo. Essa coevolve con la natura, sviluppandosi come mezzo con cui Homo sapiens può esprimere e preservare nel tempo anche ciò che condivide con le altre specie: la vita animale.
Grazie a ogni contributo non antropocentrato relativo al mondo animale potremo saldare un nuovo paradigma funzionale alla vita umana. «Un paradigma etoantropologico», che matura da una filosofia del limite – preliminare all’«abbandono del concetto di centralità e di primato attribuito a un qualunque ente nel mondo» – e serve da «antidoto alle azioni distruttive verso l’umano e verso il pianeta».
IL LIMITE come condizione necessaria di ogni forma d’esistenza. L’umano come specie tesa a sfondare il limite finché non comprende pienamente se stessa. Il rapporto con gli animali come parametro della nostra capacità o incapacità di conoscere ciò che siamo e restare umani. Cosa significhino e comportino queste questioni essenziali continuerà a dirlo Biuso ai suoi lettori.
Con un’ultima provocazione: «L’animale, infatti, non esiste», se questa parola fomenta l’illusione di un’estraneità irrisolvibile tra due nature monolitiche.
«L’animalità diventa invisibile», scompare sotto il dominio della specie che se ne sente affrancata. Animale «è un significante al quale non corrisponde un’accezione biologica ma un significato politico». Per questo è un fatto politico, di lotta politica, anche la gnosi con cui scopriamo noi stessi e disinneschiamo l’illusione.
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