A due mesi dall’inizio delle proteste a Beirut contro corruzione, carovita e malgoverno, il Libano precipita in una crisi politica, economica e sociale sempre più profonda. Ieri il presidente Aoun era chiamato ad avviare le consultazioni con i partiti volte a conferire l’incarico di formare il nuovo governo, ancora una volta, al leader sunnita Saad Hariri, premier dimissionario dal 29 ottobre. Ha dovuto posticiparle a giovedì – non è il primo rinvio – su richiesta dello stesso Hariri che non ha ancora l’appoggio di alcuni partiti importanti. Di fronte alle violenze che sabato e domenica sera hanno infiammato la capitale e altre città per un possibile governo uguale al precedente, due partiti cristiani, appartenenti a schieramenti opposti, la Corrente dei Patrioti Liberi e le Forze libanesi, hanno fatto un mezzo passo indietro. Hanno scelto, per ora, di non andare contro gli umori della piazza unita nel chiedere un rinnovamento profondo della classe politica che considerano inetta e corrotta e causa del disastro economico in cui si trova il paese. Gran parte dei libanesi vedono nella riconferma di Hariri uno schiaffo alla richiesta di cambiamento.

 

Le proteste all’inizio sono state pacifiche e così sono rimaste nei giorni successivi quando le strade di Beirut, Tripoli, Sidone e di altri centri si sono riempite di centinaia di migliaia di libanesi sottopagati, ridotti in miseria dal malgoverno, dal costo della vita e dalla disoccupazione. Il fuoco era stato appiccato dall’annuncio del governo uscente di nuove tasse – di cui una sull’uso della messaggistica di Whatsapp – in un paese dove lo Stato assicura poco e male persino i servizi pubblici essenziali, a cominciare dall’elettricità. Poi il clima è cambiato. E le manifestazioni ora si trasformano spesso in scontri con la polizia. Anche l’altra sera erano cominciate pacificamente con i manifestanti che sventolavano bandiere libanesi e cantavano «Hariri non tornerà». In pochi minuti la situazione è precipitata.  C’è stato un nutrito lancio di bottiglie d’acqua e petardi ai poliziotti schierati intorno all’area del parlamento, questi ultimi hanno risposto con manganellate, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua. I feriti sono stati una cinquantina, 28 dei quali sono stati portati negli ospedali della capitale.

 

Le proteste forse si intensificheranno nei prossimi giorni e la reazione della polizia rischia di farsi più dura, mentre il quadro politico resta bloccato. La formazione del gabinetto potrebbe protrarsi per mesi a causa del sistema settario religioso che regola la politica e il funzionamento delle istituzioni. I manifestanti intanto insistono su un governo di esperti indipendenti che il movimento sciita Hezbollah, la più forte delle forze politiche libanesi, respinge nettamente. Vi scorge un tentativo mascherato di escluderlo dalla gestione del paese e di isolarlo, proprio come chiedono Stati uniti, Francia e Arabia saudita e si attende Israele. Il segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, venerdì ha proposto un «governo di partenariato nazionale, con «la più ampia rappresentanza possibile». E ha ribadito l’appoggio all’incarico ad Hariri che pur essendo un avversario legato a Washington, Parigi e Riyadh appare al momento l’unico leader sunnita in grado di garantire gli equilibri settari nel nuovo governo. La paralisi perciò non si sbloccherà presto. Urgono nel frattempo misure immediate per tamponare gli enormi problemi economici del Libano (86 miliardi di dollari di debito pubblico, il 150% del Pil). All’elenco delle emergenze si è aggiunta la crisi di liquidità in dollari.