«Sono un uomo del Pd». Ma anche «un uomo delle istituzioni». Enrico Letta non si arrende. Affronta gelido Matteo Renzi, ricevendolo nel suo studio a palazzo Chigi. Più che parlare, ascolta. Rinvia a oggi la decisione finale, dopo che si sarà espressa la direzione del Pd. Alla quale chiede un giudizio netto sul suo programma e sulla sua persona. Ma già nel pomeriggio di ieri decide di prendere il suo avversario in contropiede. Convoca una conferenza stampa e presenta il suo piano «Impegno Italia», stampato tanto in fretta da risultare una collezione di refusi – oltre che di cifre. Nero su bianco ecco quello che promette di fare. Con un governo tutto «nuovo». Renzi non ne era stato informato. Adesso tocca all’altro, dice Letta, a «chi vuole venire al posto mio», dire cosa vuole fare. Perché le dimissioni, dice il presidente del Consiglio – «non si danno per manovre di palazzo».

Nello scontro all’ultimo sgambetto è il momento di dare fondo a tutte le capacità tattiche. Quelle di Letta sono di conio diverso, più classico, ma niente affatto inferiori a quelle di Renzi. Il premier infila il segretario nel suo punto debole, presentando la confusa iniziativa del suo rivale come una congiura. L’ennesima guerra fratricida, che immagina sgradita innanzitutto agli elettori del Pd. Il sindaco di Firenze si è esposto al massimo, nella sua sfida al governo è dovuto venire allo scoperto. Ora l’automobile democratica corre contro un muro, ma il prudente Letta non intende saltare giù per primo. Si scopre addosso una sperimentata capacità di altri leader democristiani prima di lui, felpati ma capaci di vendere cara la pelle. «Per me non è una faccenda di tornaconto personale, e sono sicuro che sia così anche per Renzi», dice. Che significa: per lui lo è. Nel quadro congelato dal capo dello stato – «Elezioni? Non diciamo sciocchezze» – Letta ha capito che nulla gli sarebbe risparmiato in caso di resa. L’ipotesi di recuperarlo come «risorsa della Repubblica» è troppo labile: Renzi lo sta spingendo via con disonore, non con i dovuti omaggi. «Le cose che mi si propongono per il futuro non c’entrano niente», assicura Letta, anche se poi si corregge: «Non ho detto che qualcuno mi ha offerto qualcosa». Ma da giorni si dice che Renzi lo prenderebbe come ministro degli esteri, pur di farlo cedere.

Non è tranquillo il presidente del Consiglio quando alle sei entra nel «salone delle galere», al primo piano di palazzo Chigi, per incontrare i giornalisti, anche se dice di essere ormai «quasi zen». È pallido e appare stanco. Nel grande quadro alle sue spalle papa Leone Magno ferma Attila; qui tocca a Letta bloccare l’avanzata del barbaro invasore, ricordandogli che «i governi nascono nelle sedi appropriate, con un voto di fiducia in parlamento». In un solo passaggio il primo ministro lascia intravedere la sua natura non conflittuale, o meglio non conflittuale fino all’ultimo sangue: per convincerlo a dare le dimissioni, spiega, può bastare «l’evidenza che la maggioranza non c’è più». Dunque anche un voto contrario della direzione Pd, che però dev’essere non su un generico discorso di Renzi ma sul piano calato ieri da Letta. E sulla sua disponibilità a cambiare da cima a fondo il governo, «non basta un semplice rimpasto». Renzi se la sente di portare il Pd «in diretta streaming», oggi, a votare contro il «suo» presidente del Consiglio? O peggio di chiedere ai gruppi di votare la sfiducia in parlamento? Letta sa farsi anche minaccioso: «Siamo in una cristalleria, la crisi può fare male». Il Nuovo centro destra e gli altri partiti di mezzo in serata fiutano un nuovo vento, e cominciano a precisare che con le loro ripetute dichiarazioni in favore di Renzi non avevano inteso mollare veramente Letta. Il segretario del Pd può decidere per un arretramento tattico, ben sapendo che il piano del presidente del Consiglio è costruito sulla sabbia. Ci saranno infinite possibilità già nei prossimi giorni di farlo inciampare, a partire dalle trattative per un nuovo esecutivo. Letta si schermisce: «Per me ogni giorno è stato come l’ultimo, sono stati talmente tanti quelli che hanno cercato di farmi cadere». Che significa anche: non c’è riuscito Berlusconi…