L’economia è il metodo. L’obiettivo è cambiare le anime”: così Margareth Thatcher, in un’intervista del 1986, sintetizzava la trasformazione dell’economia in una disciplina personale, in una serie di tecniche per addestrare e produrre soggetti conformi alla regola fondamentale imposta dal neoliberalismo, la concorrenza. Considerare il neoliberalismo come una specifica razionalità, seguire le particolari modalità attraverso il quale ha dato forma ai comportamenti, alle condotte di vita, è l’obiettivo dichiarato di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval. Il neoliberalismo non va considerato esclusivamente come una ideologia, e neppure come una politica economica, ma come una forma specifica di governamentalità: un modello di governo delle condotte, ispirato appunto alla norma della concorrenza, e, insieme, una modalità di soggettivazione, per la quale il soggetto è chiamato ad interiorizzare la forma stessa dell’impresa. Approfondendo in modo notevole il campo di indagine che Foucault aveva aperto soprattutto con il corso sulla Nascita della biopolitica, una buona parte del libro è dedicata appunto a una genealogia della governamentalità neoliberale. Dall’impostazione foucaultiana, emerge qui un primo chiaro obiettivo polemico: la ricorrente riduzione del neoliberalismo, e della sua specifica e complessa razionalità di governo, a un’idea troppo semplificata di liberismo. Il neoliberalismo non è una “ritrazione dello Stato”: è anche produzione di dispositivi di governo, di specifiche forme di vita, di soggettività. Lo Stato non è tolto da mezzo, e neppure semplicemente trasformato in strumento degli interessi privati: uno dei principali problemi delle sinistre, di fronte al neoliberalismo, insistono Dardot e Laval, è l’aver scambiato il neoliberalismo per un ritorno in forza dell’ideologia della laissez-faire, restando così completamente sguarnite di fronte al dispiegarsi molteplice e produttivo dei dispositivi di cui si nutre la razionalità neoliberale. Non è solo però il Foucault governamentale ad animare l’analisi di Laval e Dardot: quando la genealogia si fa esplicita critica del presente, i due autori coniugano molto opportunamente l’analisi della governamentalità con le analisi delle tecniche del sé, cui Foucault dedicherà le sue ultime ricerche. Il libro, da genealogia della governamentalità neoliberale, si trasforma così in una precisa cartografia delle modalità di costruzione del neo-soggetto, del tipo di soggettività richiesta dalla razionalità neoliberale. È un viaggio tra le più sofisticate modalità del biopotere foucualtiano: il neosoggetto si forgia attraverso l’interiorizzazione di un’etica della prestazione che lo spinge a esigere sempre più da se stesso, ben oltre ogni antico ideale della padronanza di sé. Laval e Dardot definiscono questa identificazione del soggetto con una mai conclusa “impresa di sé”, come una ultra-soggettivazione: autorappresentarsi come capitale umano significa spostare sempre in avanti la barra della prestazione che ci si autoimpone e del godimento che si ricerca, in un superamento indefinito di se stessi (vera e propria incarnazione neoliberale degli esercizi spirituali: Paolo Napoli chiude la sua bella prefazione a quest’edizione italiana richiamando questa sorprendente attualità di Ignazio di Loyola).

Questa ultrasoggettivazione richiama evidentemente una logica non esclusiva della razionalità neoliberale, ma sottesa all’intera storia dell’accumulazione del capitale: e qui, incontrandosi soggettivazione “per eccesso di sé” e plusvalore, il taglio foucaultiano non può che incrociare il discorso marxista. Non è un incontro dei più facili: il libro è anche un esplicito tentativo di far funzionare la governamentalità foucaultiana e l’analisi dei processi di soggettivazione come correttivo dell’analisi marxista, della quale Dardot e Laval sottolineano a più riprese quelli che considerano i limiti più evidenti. La pretesa di analizzare tutto l’evolversi del capitalismo alla luce della logica dell’accumulazione rischia di ridurre forzosamente ad unità fasi differenti e dispositivi che emergono invece da incontri e scontri strategici, ai quali non può essere prestata dall’esterno una razionalità compatta, unitaria e lineare. La tentazione “marxista” di ricondurre l’intera analisi alla retrostante “logica del capitale” si muove su un piano sintetico, verso una logica unitaria del funzionamento del sistema piuttosto che verso una “foucaultiana” logica strategica dell’emersione dei singoli dispositivi. Eppure, i due approcci si toccano proprio quando si tratta di leggere il tema della soggettivazione: l’approccio foucaultiano, che mostra come il soggetto si fa impresa, in fondo non fa che descrivere come il comando del capitale oggi è costretto a farsi produzione della stessa soggettività, a calarsi nei ritmi di vita, a distendersi nell’interiorizzazione delle norme della concorrenza e della prestazione. Al di là della critica opportuna alle rigidità dei marxismi tradizionali nel comprendere la razionalità neoliberale, alla loro difficoltà a fare pienamente i conti con la “governamentalizzazione” dello Stato, un incontro tra Marx e Foucault è reso ora possibile e proficuo proprio dal trasformarsi della produzione in produzione di soggettività, dall’allargarsi contestuale della produzione dalla fabbrica a tutto il sociale: in ultima analisi, dall’impossibilità di distinguere estrazione di valore e dispositivi di biopotere quando la marxiana sussunzione reale si è oramai estesa direttamente alle forme di vita e all’intera cooperazione sociale, ben oltre i ritmi “misurati” dello sfruttamento tradizionale. Se questo è vero, allora anche il problema della rottura della governamentalità, o meglio, dell’elaborazione di una governamentalità altra da quella neoliberale, verso cui muovono infine Dardot e Laval, potrebbe essere nuovamente impostato a partire da questa nuova densità della cooperazione sociale, del marxiano lavoro vivo, su cui si estendono i dispositivi della foucaultiana razionalità neoliberale. Non è possibile immaginare, insistono Laval e Dardot, un “fuori” assoluto rispetto alla governamentalità neoliberale: le resistenze, se nascono, si muovono all’interno di quei dispositivi. Ma, per quanto certo non si dia alcun “esterno” assoluto rispetto alla razionalità neoliberale, va però aggiunto che queste resistenze sono oggi forze che lottano dentro la nuova qualità intensiva che assume la cooperazione sociale. Laval e Dardot, mentre assumono molto opportunamente come elemento portante della loro analisi gli elementi di regolazione giuridico-istituzionali che il capitalismo finanziario mette in campo, riaffermano anche in questo testo il loro scetticismo sulle analisi che valorizzano la trasformazione “cognitiva” di tale capitalismo. Eppure, quasi oltrepassando le loro stesse perplessità, questo incontro tra Marx e Foucault fa cenno proprio alla trasformazione dei rapporti tra “lavoro vivo” e “lavoro morto”, e, quindi, alla nuova densità cognitiva della forza-lavoro. È in fondo questa densità, la sua eccedenza rispetto alla normatività governamentale, che costringe continuamente il neoliberalismo a mettere in campo tutte le sue risorse di adattamento, ma è anche quella che potrebbe trasformare eventuali strategie di resistenza interne alla governamentalità neoliberale nella sua interruzione e nell’elaborazione effettiva di quella “ragione del comune”, della quale anche Dardot e Laval intravvedono le tracce nelle nuove pratiche generate dalla cooperazione sociale.