Aleksandr Zakharchenko dal novembre 2014 è a capo della Repubblica popolare di Donetsk. Dopo aver ottenuto importanti riconoscimenti militari (da Igor Strelkov, capo dei militari ribelli), con la vittoria elettorale ha preso il posto di Alexander Boroday, ex boss di Donetsk, i cui natali moscoviti, erano stati considerati un regalo troppo ghiotto per le accuse del governo di Kiev, circa la presenza e l’influenza di militari russi tra i separatisti.

Zakharchenko è di Donetsk, ha fatto il minatore a Donetsk, suo padre è stato minatore per trent’anni a Donetsk. Meglio di chiunque altro, è lui a incarnare la popolazione che dirige, sia politicamente sia militarmente.

Presente alla firma dei primi accordi del settembre scorso (insieme al capo della Repubblica Popolare di Lugansk, Igor Plotnitskiy), ha disertato gli ultimi incontri a Minsk, nonostante la sua presenza fosse stata considerata fondamentale dagli interlocutori di Kiev. «Sono sotto i bombardamenti», ha fatto sapere, «non posso certo recarmi a Minsk, ora». E infatti i colloqui sono saltati.

E ieri ha annunciato la mobilitazione generale e il reclutamento di cento mila uomini. «Entro dieci giorni – ha detto – inizieremo una mobilitazione generale nella Repubblica popolare di Donetsk».

Si tratta di una mossa importante, probabilmente decisiva per le sorti della guerra attualmente in corso, specie se sarà applicata davvero. Ma potrebbe anche essere una mossa tattica: minacciare la mobilitazione, per ottenere vantaggi ad una eventuale nuova trattativa. Anche perché gli equilibri miliari, ormai, sembrano a favore dei ribelli, con Kiev che appare in difficoltà. Da un lato il suo esercito perde colpi e soldati (che scappano o disertano), dall’altro ha deciso una riforma dei battaglioni, creando scompiglio.

Non a caso ieri, a Kiev, molti dei combattenti del battaglione Aidar (accusato di «crimini di guerra» da Amnesty international) ha inscenato una protesta di fronte al ministero della Difesa. Contemporaneamente le madri dei soldati asseragliati e circondati dai ribelli nelle zone orientali, hanno chiesto la fine delle ostilità, chiedendo che i propri figli possano tornare a casa. E proprio ieri Merkel, da Budapest, ha escluso l’invio di armi all’Ucraina da parte della Germania. La Cancelliera ha sollecitato il ripristino urgente del cessate il fuoco nell’est del paese e ha ribadito che il conflitto «non può essere risolto con lo strumento militare».

Chi starebbe, al contrario, rivalutando l’ipotesi di un sostegno militare sarebbe invece Washington. Il segretario di stato John Kerry, che oggi sarà a Kiev, sembra pronto a rivalutare la questione, così come il generale Martin Dempsey, a capo degli Stati maggiori riuniti, mentre il segretario della Difesa Chuck Hagel è favorevole. Si tratta di notizie trapelate e pubblicate nei giorni scorsi dal New York Times, secondo il quale, perfino la consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice da sempre contraria all’invio di armi all’Ucraina, sarebbe pronta a rivedere le sue posizioni.

Fino ad oggi gli Usa hanno inviato materiale «non letale», ovvero strumentazione da guerra, ma non armi. Non pensano si possa proseguire così alcuni esperti, come Michele Flournoy (probabile prossima segretaria di Stato) e Ivo Daalder (ex ambasciatore americano alla Nato), autori di un report patrocinato dal Chicago Council (il cui titolo è «Preservare l’indipendenza dell’Ucraina dall’aggressione della Russia: cosa devono fare Nato e Stati Uniti») dove richiedono l’invio di droni per la ricognizione, mezzi blindati, missili anti carro e radar per un totale di tre miliardi di dollari di budget. Nel frattempo 11 civili sono morti e 42 sono rimasti feriti nelle ultime 24 ore nell’est ucraino, come riferisce il «ministro della difesa» di Donetsk, Eduard Masurin, citato da Interfax.

Delle undici vittime, sette sono state uccise di notte. Tre di loro hanno perso la vita durante un bombardamento alla periferia di Donetsk. E insieme ai combattimenti a est, proseguono le esercitazioni Nato nei paesi baltici, con la presenza – anche – dei piloti italiani.