Undici scene, undici capitoli di un ordinato e rapsodico vasto discorso che si muove alacremente scoprendo i legami tra tre diversi luoghi della Storia, della società, della narrativa, del pensiero: lavoro macchine vita, osservati nello specifico e speciale contesto/laboratorio dell’Italia del Boom. E della resistenza che al loro anti-umano intrecciarsi, spesso al di qua del margine del consapevole (sostiene l’autrice), molti diversi registi hanno saputo contrapporre, dandole una forma.

Come esistono i film-saggio che riportano nel flusso del cinema la speculazione logocentrica della parola scritta, così nel suo «A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia» (pubblicato in Italia da Ombre Corte, Verona ( pp. 146) e tradotto da Gianluca Pulsoni) Karen Pinkus, studiosa e docente di letteratura italiana e comparata negli Stati Uniti, sembra recuperare la forma film per imbastire il telaio della sua riflessione; e più oltre, fondare sul ritmo e sulla forma delle immagini in movimento il dispiegarsi del suo congegno di analisi.

Esattamente come succede nella proliferazione che nel film-saggio (tutt’altro che casuale è in effetti la citazione di «Arbeiter verlassen die Fabrik», opera esemplare di Harun Farocki che proprio dentro il formato del film-saggio, proprio centrando l’analisi sui corpi dei lavoratori dentro gli apparati industriali, costruisce, nel fatidico 1995, un excursus storico-teorico sul lavoro dentro le immagini del cinema) muove dal dettaglio di una battuta, di un’inquadratura, di un gesto, per poi lanciarsi in una serie di affondi, di detour, di salti logici sempre più iperbolici e remoti, così nel saggio di Pinkus si parte dall’analisi del racconto cinematografico che Monicelli gira nel ’62 – scrivendolo, tra gli altri, insieme anche a Italo Calvino – per inserirlo, dopo varie traversie, nel film a episodi «Boccaccio ’70», scelto come materia prima dell’indagine – si dice esplicitamente nell’introduzione – proprio per una sua specifica «modestia e ordinarietà», per poi disegnare, pezzo dopo pezzo, una estesa mappa concettuale costruita di citazioni, attraversamenti letterari, evocazioni cinematografiche, in una costellazione di rimandi che si addensano intorno ad alcuni concetti chiave sgorgati dalle altrettante scene scelte dall’episodio firmato dal regista toscano: la distinzione tra il tempo della vita e il tempo del lavoro, l’ossessione del controllo, il rapporto tra copro e macchina, sono solo alcuni dei temi che Pinkus affronta passando da Marx a Bifo, da Pirandello a Volponi, da Antonioni a Gregoretti.

Pinkus dichiara apertamente la prima origine del progetto del libro: uno studio monograficamente dedicato alla figura di Adriano Olivetti. Se per un verso questo serve a illuminare l’orientamento del suo discorso – sul piano politico e su quello culturale -, per l’altro ne suggerisce la natura, prefigurando alcuni degli elementi di maggior interesse insieme alle sue poche, secondarie incongruenze.

«A fine turno» si offre come percorso denso e sintetico dentro una certa parte – una delle più cruciali e affascinanti – del paesaggio convulso e brulicante che fu l’Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ripercorrendo e in parte riscoprendo i fili tesi tra industria, intellettuali, società attraverso la funzione/macchina/forma cinema. E nel far questo da una parte sottrae alcuni autori e le loro opere – su tutti basti citare il regista Ermanno Olmi e il letterato Ottiero Ottieri – dal consolidato sedimento della critica più vieta, proprio rispolverando i loro legami con il Paese e con l’ambiente culturale del loro tempo; dall’altra riscopre il ruolo unico e prezioso di questa fase della società italiana densa e complessa nel più ampio quadro della storia dello sviluppo capitalistico e industriale in Occidente, tracciando linee nette tra l’orizzonte in tumulto dello strapaese nel corso della sua metamorfosi più cruenta, e gli Stati Uniti da dove si vede provenire l’innesco e la spinta di quella trasformazione.

E se forse nessuno dei passaggi del libro è in sé inedito, inedita è la capacità di costruire un sintetico e coerente tragitto, un reticolo pieno di sagaci e più che pertinenti appunti, rimandi, riferimenti, al contempo in grado di tracciare il profilo di un insieme di categorie e concetti utili non solo a una più complessiva lettura del passato, ma anche e forse soprattutto alla più lucida costruzione di una resistenza nel presente.

Così chiude il libro la sua autrice: «Un ragionamento del genere è sottile, sicuramente poi un po’ eccentrico e forse nevrotico, e per questo degno della nostra considerazione».