Non chiamiamoli smart. Come se il lavoro intelligente e autonomo si identificasse con quello da casa. La pandemia ci ha mostrato quanto smart, densi di competenze, capaci di gestire imprevisti, siano i lavori essenziali per le persone e le comunità.

Non solo i medici e gli infermieri, ma anche le operatrici socio sanitarie, e quanti ci hanno portato a casa il cibo o le medicine, e chi ha pulito le strade e le corsie degli ospedali in tempi di virus dilagante. E gli operai e le operaie rientrati al lavoro, che si sono confrontati con le nuove norme di sicurezza, e con l’autonomia e la responsabilità in più che comporta lavorare a distanza negli spazi della fabbrica. La seconda considerazione è che non tutti i lavori da casa sono di per sé flessibili e creativi.

Veniamo da anni in cui la creatività del lavoro, la possibilità di mettere a frutto l’intelligenza e la responsabilità delle persone oltre le gerarchie, il lavoro secondo progetti e non come semplice esecuzione di procedure, aveva, secondo i progettisti delle organizzazioni con gli architetti al seguito, la forma dell’open space, degli spazi larghi in cui ogni postazione guardava le altre e nessuno era isolato. Addirittura i consulenti delle imprese più innovative avevano esaltato la pausa caffè in comune, o la palestra dentro l’impresa, come un elemento decisivo per produrre idee nuove.

C’era probabilmente tanta ideologia in quel racconto e in quelle pratiche – tanti open space erano gabbie da polli- ma stupisce sentire oggi identificare il lavoro nella propria casa come il più creativo e progettuale possibile, addirittura come l’arma decisiva per semplificare e sburocratizzare la Pubblica Amministrazione. Il passaggio dal lavoro a comando al lavoro a progetto richiede una capacità grande da parte della PA di passare dalle procedure ai contenuti del lavoro, cosa quanto mai difficile in un a PA in cui il profilo della dirigenza è quasi esclusivamente giuridico vecchio stile, e che ha visto progressivamente sparire dai ruoli pubblici dirigenziali i tecnici e gli ingegneri. La digitalizzazione della PA, per essere smart, va legata a questo salto culturale e a un rinnovamento e ringiovanimento dei quadri dirigenti. Non si identifica col lavoro da casa.

Il passaggio dal lavoro burocratico al lavoro a progetto, richiede un cambiamento grande nel modo di pensare il lavoro da parte dei dirigenti, pubblici e privati. A chi lavora a distanza si possono proporre progetti o impartire ordini, tra l’altro difficilmente discutibili perché pesano sul singolo lavoratore, privato di quella possibilità di far valere le proprie ragioni che gli viene dal confronto solidale con quelli con cui si lavora fianco a fianco.

Occorrerà che il sindacato si attrezzi rapidamente per discutere quali sono i lavori che è possibile fare da casa, arricchendo la professionalità e l’autonomia dei lavoratori, e quali sono quelli in cui il domicilio diventa un posto stretto in cui la dipendenza dal comando gerarchico diventa ancora più stringente. E costruire regole condivise che permettano di fare in modo che un lavoro che diventa sempre più personale non aumenti l’arbitrio dei decisori, per cui l’individuo si premia o si punisce secondo la fedeltà ai dettami dell’azienda o della dirigenza. Il lavoro da casa va collegato ad un aumento effettivo di autonomia e di responsabilità, che va premiata professionalmente. È il contenuto concreto del lavoro che va fatto valere sia che si lavori in ufficio che da casa. E il passaggio dal comando al progetto richiede tanta formazione e un accrescimento e un riconoscimento delle competenze, non solo digitali.

Non tutte le case sono poi uguali. E non è la stessa cosa se si è uomo o donna. Quando si paragonano le percentuali di lavoro da casa italiano con quello di altri Paesi del Nord Europa bisognerebbe mettere nel conto anche i diversi livelli di densità abitativa. Perché anche nel lavoro da casa vale quanto ha rivelato l’insegnamento a distanza. La differenza grande fra chi ha a disposizione una stanza tutta per se e chi non ce l’ha. E insieme quanto lavora di cura pesa sulle donne che da casa lavorano, e continuano a far da mangiare, a lavare e a stirare e aver cura dei figli quasi da sole. Il tempo risparmiato nel non dover raggiungere un luogo di lavoro diverso e spesso distante dall’abitazione spesso è tutt’altro che tempo liberato. Le tante donne che si mostrano propense a lavorare da casa spesso lo fanno per la mancanza di servizi pubblici a sostegno della cura dei figli e degli anziani, e per reggere una situazione famigliare che fa pesare su di loro la cura della famiglia e della casa. Perché il lavoro a casa diventi davvero smart c’è bisogno anche di politiche sociali e territoriali, e di una politica degli orari di lavoro che, nel momento in cui vita e lavoro si intrecciano sempre più strettamente, faccia valere le esigenze di flessibilità della persona, e non solo i parametri di produttività delle imprese e della Pubblica Amministrazione.