Senza il cinema, la narrazione del lavoro, ignobilmente maltrattata da decenni di scientifica organizzata rimozione, non potrebbe imporsi al nostro tempo come assolutamente imprescindibile. Di certo sarebbe infinitamente più povera, arida.
Ben ritrovato, dunque, in questa II edizione, Working Title FF, il Festival del Cinema del Lavoro (il nome rimanda al titolo provvisorio di lavorazione di un film), conclusosi il 1° maggio a Vicenza: uno spazio di visione, germinato dall’impegno di Marina Resta, alla direzione artistica, e di Giulio Todescan, alla comunicazione, entrambi autori del documentario L’acqua calda e l’acqua fredda, curato nel 2016 su queste pagine.
Cosa resta dunque del lavoro dopo la tempesta che sembra aver squadernato lotte, forme, Storia, regole del tracciato novecentesco, e cosa ribolle invece tra le radici pulsanti del passato? Ecco, dalle 17 opere in concorso, tra lunghi e corti, con un’attenzione verso autori e autrici under 35, si staglia nitida una voglia di riportare il lavoro all’attenzione, di ascoltarlo nelle sue sfumature antiche e contemporanee, di svelarne le storture attuali, secondo una propensione documentaristica alla denuncia civile. Penso, in questo senso, alla guida coraggiosa con cui, in Pouding Chômeur (Requiem for unemployment), Bruno Chouinard, conduce, per mari gelidi, la nave dei lavoratori stagionali canadesi, nel 2013 privati brutalmente, per le riforme neoliberiste dell’allora governo Harper, della possibilità di accedere all’assegno di disoccupazione (il titolo allude a un dolce povero tipico della recessione degli anni ‘30). Sviluppato su un impianto classico – i racconti di alcuni lavoratori precipitati in un labirinto di vessazioni kafkiane, dove «la colpa» presunta è quella di aver perso il lavoro – il film ha una sua autorevolezza anche visionaria magnifica (Premio per il miglior lungometraggio ex aequo), culminante nella testimonianza della funzionaria statale licenziata per aver rivelato pubblicamente il sistema di furto e annientamento perpetrato dallo Stato nei confronti dei lavoratori.
Ancora documentario tra gli spazi di un istituto professionale per elettricisti a Bruxelles nell’altra opera vincitrice tra i lunghi, Grands Travaux di Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes, incontrati a Vicenza, giovani e freschi, come i ragazzi, belgi di seconda generazione, da loro raccontati nel film, tra identità in formazione, confronto coi docenti, sogni, ricordi talvolta dolorosi dei Paesi d’origine, e gli spazi releganti e insieme salvifici dal nulla fuori, della scuola. Uno sguardo acuto e creativo, con lampi incandescenti di futuro.
A ricordarci invece come senza l’apporto più esplicito della finzione non sia possibile indagare davvero l’argomento, Miewoharu (Eriko, Pretended), della giapponese Akiyo Fujimura, con levità riflette sul potere della «finzione vera», nella vita come nel cinema, e sul lavoro come via per diventare o meno chi siamo. E ancora si potrebbe dire di The potato eaters di Ben De Raes, omaggio ai lavoratori del porto di Anversa, illuminati dalla luce trasfigurante della ricerca sul lavoro manuale di Van Gogh, o delle opere fuori concorso di Razi Mohebi e Soheila Javaheri, coppia di cineasti afghani, che riverberano in modo sconvolgente e geniale il vissuto limbico dei rifugiati politici in questo Paese.
Abbracciando invece lavoro e ben oltre, al di là delle secche del dibattito pubblico di questi giorni, chiudo con un riferimento a Last men in Aleppo di Firas Fayyad e Steen Johannessen, visto da poco al Middle East Now di Firenze.
Perché nulla di più prossimo può esserci, nel rischio costante della vita anche dei cineasti, all’operato dei White Helmets, che con cura amorosa assoluta estraggono i vivi e i morti, talvolta frammenti di corpi, dalle macerie siriane. Sono due, gli ultimi uomini del film, in pena per le famiglie lontane, e pronti a prodigarsi per sconosciuti allo stremo, per la città straziata.
Vedere il documentario, essendo in salvo, è un privilegio e insieme è spaventoso; come pesci in un acquario, noi o loro, mentre il documentario temerariamente si apre alla potenza della musica, epifania sul sublime umano che il cinema sa toccare.