Anche se l’iperbolica profezia di Foucault circa l’avvento di un «secolo deleuziano» non sì è avverata, non vi è dubbio che Deleuze abbia lasciato un segno indelebile in filosofia e una pletora di discendenti, epigoni, rapsodi e detrattori. Il pensiero di Deleuze è stato così classificato secondo vari approcci tassonomici, per esempio dividendo la sua produzione più «teorica» da quella più «storica» o i testi che ha firmato da solo da quelli scritti con Guattari.

INDIPENDENTEMENTE da questo, Deleuze è però sempre stato affiliato a un canone gioioso, a un materialismo desiderante, produttivo e attraversato da impersonali linee di forza che corrono rizomatiche lungo un piano di totale immanenza. Nel suo primo libro (edizione italiana a cura di Francesco Di Maio, Mimesis, pp. 118, euro 10), Andrew Culp non è di questo avviso. Non a caso, il volume, tanto breve quanto denso, una sorta di buco nero, che pagina dopo pagina, ci invischia sempre più nel suo campo gravitazionale, è emblematicamente intitolato Dark Deleuze.
Culp parte da due considerazioni per sostenere la necessità di riclassificare Deleuze. La prima: la potenza creativa del suo pensiero è stata assorbita dall’evoluzione del capitalismo che, per dirla con Lacan, oggi prevede l’ingiunzione «Godi!» come imperativo categorico.

L’originaria carica rivoluzionaria del pensiero deleuziano si è insomma andata dileguando (e diluendo) nel corpo senza organi del capitale, nell’iperconnettività del web e nello spazio liscio dei «comunicatori»; motivo per cui ciò che può un corpo è stato ridotto a produttivismo e ottimismo a buon mercato. La seconda: bisogna «correggere l’errore di Deleuze», la mancata trasformazione delle forze del negativo, che pure percorrono il suo pensiero, in odio distruttivo. Di conseguenza, il cadavere di Deleuze va risvegliato tramite un vero e proprio processo traumatico – il linguaggio di Culp è sempre eccessivo ed elettrico –, per conferirgli, come in un racconto di «fantascienza apocalittica» degno delle allucinazioni del dottor Frankenstein, quella «negatività rivoluzionaria» che consenta «la Morte di questo Mondo».

«Possiamo essere di questo mondo, ma certo non siamo per esso» perché non si può che dire no a «un’era di precarietà generalizzata, estrema stratificazione di classe e esecuzioni sommarie di persone di colore». L’obiettivo di Culp è, né più né meno, «tenere vivo il sogno della rivoluzione in tempi controrivoluzionari» per ottenere «la fine di questo mondo, la sconfitta finale dello Stato e il comunismo pieno».

L’INTERA ARCHITETTURA del libro è volta a mostrare, grazie a una scrittura in cui le citazioni da Deleuze si innestano sui proclami di Culp fino alla quasi completa indistinzione, che è scorretto ridurre il pensiero di Deleuze a un’ontologia affermativa, a partire dalla terminologia (ricca di de e anti) fino al blasfemo divenire animale (purtroppo non citato) e alle forze del Fuori, passando per le figure che lo infestano (si pensi a Bartleby e alla sua ostinata resistenza) e alle movenze del suo procedere (sintesi disgiuntiva).
Al proposito, anche se il radar di Culp non l’ha intercettata, basti citare la dichiarazione programmatica a favore dell’odio per la filosofia presente in Differenza e ripetizione: «Ciò che è primo nel pensiero, è l’effrazione, la violenza, il nemico tutto muove da una misosofia. Non si può contare sul pensiero per instillarvi la necessità relativa di ciò che pensa, ma viceversa sulla contingenza di un incontro con ciò che costringe a pensare».

Costringerci a pensare è proprio il merito principale del saggio di Culp. Costrizione ulteriormente rafforzata dalla differente prospettiva dei contributi che arricchiscono l’edizione italiana (positivi quelli del curatore e di Vignola e poco favorevole quello di Ronchi) e dal cupio dissolvi dell’autore, così fuori controllo che non può che essere il frutto di una scelta deliberata per contrastare affermativamente il pensiero unico della crescita illimitata. Aggredendo Deleuze alle spalle, Culp non intende distruggere il futuro – questo lo fa già bene il capitalismo neoliberista –, ma aprirci vie di fuga sottraendogli credito – cosa ne sarebbe del capitalismo finanziario senza questo ingrediente fondamentale del suo menù onnivoro?