«Guardiamo ai fatti: la vita è un gioco che finisce sempre a punteggio zero, e la politica è il nostro modo di decidere chi vince e chi perde. E, che ci piaccia o no, siamo tutti giocatori». E se l’antidoto migliore all’antipolitica risiedesse proprio nel mostrare gli aspetti peggiori della lotta per il potere, nello spogliare di ogni sacralità quella che resta pur sempre soltanto una forma socialmente accettata di conflitto, una metafora della guerra? Potrà apparire paradossale, ma può essere questa una delle chiavi per avvinarsi a House of Cards, che dell’epica sinistra della conquista del potere ad ogni costo, ha fatto una delle ragioni del proprio straordinario successo internazionale, tanto da suscitare nella critica paralleli con Il Principe di Machiavelli o il Riccardo III di Shakespeare.

Proprio l’eco «globale» assunta dalla storia creata da Michael Dobbs in Gran Bretagna – il romanzo House of Cards esce in questi giorni per Fazi (pp. 448, euro 14,90) -, e che ha già prodotto una versione televisiva per la Bbc e una serie americana venduta attraverso il servizio di streaming a richiesta Netlix – la prima stagione debutta in Italia da oggi su Sky -, invita a interrogarsi sugli ingredienti che ne sono alla base.

Milioni di persone – e tra loro Obama, Cameron e, si dice, diversi pezzi grossi del Pc cinese – si sono infatti appassionate ai tentativi del politico conservatore Francis Urquhart (trasformatosi nel democratico Frank Underwood nella sua versione americana) di farcela ad ogni costo, non arretrando di un millimetro neppure di fronte alla possibilità di commettere un omicidio. Cinico, privo di scrupoli, dominato dalla propria sete di potere, il protagonista – che negli Usa ha il volto imperscrutabile di Kevin Spacey – non fa mistero dei suoi sentimenti che descrive spesso agli spettatori guardandogli fissi negli occhi attraverso lo schermo. Questo, mentre tutto intorno «il castello di carte» della politica di Washington prende corpo tra truffe, ricatti e scandali.

Già portavoce parlamentare del Partito conservatore negli anni Ottanta e capo dello staff di Margaret Thatcher a Downing Street, Michael Dobbs è stato poi nominato alla Camera dei Lords. Prima di iniziare la sua carriera di scrittore, si è anche occupato di studi strategici e ha fatto il giornalista al Boston Globe. Anche lo sceneggiatore con cui ha scritto la serie americana tratta dai suoi libri, Beau Willimon, proviene dal mondo politico: ha coordinato la sfortunata campagna di Howard Dean per le primarie democratiche del 2003, quelle poi vinte da John Kerry.

È stato uno dei più stretti collaboratori di Margaret Thatcher. Poi, nel 1987, dopo una lite furibonda, «Maggie» l’ha cacciata via e lei si è messo scrivere. «House of Cards» è nato da una voglia di vendetta?

No, se mi fossi voluto vendicare della Thatcher non avrei scritto un romanzo, ma la storia degli anni che avevo passato accanto a lei. Comunque, è vero, per me è stata una batosta difficile da digerire. La politica è così. Se fai questa scelta devi essere pronto a prendere tante legnate, ma anche a saperti riprendere, dopo. Del resto, a distanza di tanti anni, di quella che hanno chiamato la «Lady di ferro», io do ancora un giudizio positivo: la ritengo il miglior Primo ministro che l’Inghilterra abbia avuto durante il ’900, in tempo di pace.

Non c’era la guerra mondiale, come all’epoca di Churchill cui lei ha dedicato una biografia, ma la stagione della Thatcher è stata segnata da aspre contrapposizioni e anche da un conflitto armato, quello delle Falklands. L’idea di politica cui si è ispirato per il suo romanzo non le sembra lontana?

Shakespeare ha scritto le sue opere più di 400 anni fa, eppure consideriamo attualissime molte delle sue intuizioni sulla politica e sul potere. Il punto, per me, è però un altro. Forse perché faccio parte anch’io della «famiglia», ma ho capito da tempo che per «leggere» la politica si deve guardare prima di tutto alle caratteristiche umane dei suoi protagonisti. In altre parole, non puoi capire la vita pubblica di un politico se non capisci la sua vita privata. Questo vale per Thatcher, come per Churchill. Proprio studiando la figura di Churchill, mi sono reso conto che non si potevano separare questi due aspetti: molte sue scelte politiche nascevano dalla sua situazione esistenziale. Del resto, gli avvenimenti della Storia sono decisi dalle azioni degli uomini e non da qualche fatalità. Per questo dietro ogni grande vicenda c’è un uomo, con le sue paure e le sue angosce che non possono essere assolutamente dimenticate se si vuole dare un senso alle sue azioni. I politici io li racconto così: attraverso le loro ossessioni, i loro desideri, le loro pulsioni. Non per ciò che mostrano alla luce del sole, ma per quello che cercano di tenere ben nascosto.

Il suo è un romanzo sul potere. Secondo lei, perché si tratta di un tema così seducente per i lettori?

Credo siano molte le ragioni.

Ne cito solo due che considero le più importanti. Tanto per cominciare, perché è il potere cha dà senso alla politica. Puoi avere i più grandi ideali del mondo, ma se non hai il potere per metterli in pratica sei come un profeta che parla da solo dentro una caverna. La seconda ragione è che il potere è estremamente divertente, rappresenta un mondo quasi teatrale, pieno di passioni, in cui si commettono tanti errori, a volte clamorosi, in cui c’è tanto sesso, tanto denaro, c’è tanto di tutte quelle cose che ci affascinano. Henry Kissinger una volta ha detto che «il potere è il miglior afrodisiaco che conosco» e penso che avesse ragione.

Nei primi minuti della seconda stagione della serie americana, Frank guarda in camera durante il giuramento da vicepresidente e dice «la democrazia è molto sopravvalutata». Non teme che ci si innamori di un personaggio che incarna un’idea così cinica della politica e della vita?

Dopo la mia rottura con Thatcher, c’era uno che mi scriveva di continuo delle lettere di insulti, accusandomi di aver distrutto il Partito conservatore. Ovviamente non era così e lo stesso posso dire della visione della democrazia che si potrebbe trarre da House of Cards. Churcill diceva «la democrazia fa schifo, ma è il meno peggio tra i sistemi politici». È vero, la democrazia non è perfetta, e forse proprio per salvaguardarla è giusto raccontarla per quello che è: senza filtri e con la massima onestà. E quando è necessario, anche stando con il fiato sul collo dei politici.

Tutto questo, però, almeno nel mio caso, senza dimenticare mai il senso dell’umorismo. Per me, tutto si basa infatti su un equilibrio apparentemente instabile: passo metà del tempo alla Camera dei Lords a spiegare al mondo quanto siamo bravi noi politici e l’altra metà a scrivere storie in cui racconto il lato più oscuro e inquietante di questo stesso mondo. Se ce l’ho fatta io, a non perdere il filo, penso che possano farcela anche i miei lettori.