Il Brasile come non te lo aspetti. Quella che racconta Luiz Ruffato è una realtà urbana, operaia, dove le tracce del mito fondativo dell’immigrazione europea sono state spazzate via da decenni di migrazioni interne che hanno cambiato per sempre il volto del paese. Non il Brasile-cartolina delle spiagge e del Carnevale di Rio, ma nemmeno quello da gangstarap delle guerre di favelas. Un mondo silenzioso, spesso immerso nei suoi sforzi quotidiani per tirare avanti, ma, allo stesso tempo, al centro dei grandi processi di trasformazione che hanno attraversato la società brasiliana nel corso degli ultimi decenni.
Considerato tra i romanzieri più innovativi della letteratura brasiliana contemporanea, Ruffato è nato nel 1961 a Cataguases, un piccolo centro dello Stato di Minas Gerais, figlio di un veneto e di una portoghese, ma è cittadino d’adozione di San Paolo, la più grande metropoli del paese con un’area urbana che supera i venti milioni di abitanti. Prima di affermarsi grazie ai suoi romanzi, ha fatto praticamente di tutto: è stato cameriere, commesso, operaio in un’industria tessile, tornitore metallurgico, giornalista, libraio e ha perfino campato vendendo pop-corn per strada.
Da quando, nel 2003, ha scelto di lasciare il suo lavoro nella redazione del quotidiano paulista Jornal da Tarde per dedicarsi alla narrativa, ha scritto una quindicina di opere tra raccolte di racconti, libri di poesia e romanzi. Tra il 2005 e il 2011 ha realizzato il suo progetto più ambizioso, la serie di cinque romanzi, intitolata Inferno Provisório, tutt’ora inediti nel nostro paese, in cui si racconta la storia della classe operaia brasiliana dalla metà del Novecento fino ai giorni nostri, sullo sfondo delle trasformazioni vissute della città di San Paolo. Il tutto, ricorrendo da un lato al recupero del linguaggio orale e delle forme gergali utilizzate negli ambienti popolari e, dall’altro, costruendo una trama narrativa dove trovano molto spazio le espressioni poetiche e la sperimentazione. Non a caso, Ruffato, che collabora da tempo con artisti e fotografi, parla delle sue opere come di «romanzi-installazioni».
Il desiderio di raccontare la realtà sociale del Brasile, senza indulgere in rappresentazioni falsamente realistiche ma anche senza fare appello alle retoriche consolatorie degli ultimi che vedranno un giorno premiata la loro sofferenza, torna anche in Di me ormai neanche ti ricordi, proposto di recente ai lettori italiani dalla Nuova Frontiera (traduzione di Gianluigi de Rosa, pp. 144, euro 14), cui si deve già nel 2011 la pubblicazione di Sono stato a Lisbona e ho pensato a te – nel 2003 era uscito per Bevivino un altro omaggio a San Paolo, Come tanti cavalli.
Il libro, che si presenta come un romanzo epistolare, la raccolta delle lettere che il fratello dell’autore, Célio, avrebbe scritto alla madre dopo aver lasciato il paese di provincia dove era nato per lavorare come operaio in una fabbrica di San Paolo, descrive attraverso rapidi flash la situazione brasiliana negli anni Settanta: la dittatura militare, le prime lotte e la fatica nelle officine industriali, lo sviluppo di una nuova cultura urbana, ma, soprattutto, lo straniamento degli immigrati e la solitudine di chi è dovuto partire per poi scoprire che i poveri non fanno mai ritorno a casa.
Poco prima dell’inizio dei Mondiali di calcio che proietteranno sul paese l’attenzione del mondo intero, Ruffato ha raccontato al manifesto la sua idea di Brasile.

La letteratura brasiliana ha coltivato a lungo il mito dell’emigrazione europea, compresa quella italiana, come elemento centrale per la definizione dell’identità del paese. Lei invece ha scelto di occuparsi delle migrazioni interne e dello sviluppo urbano…

Il mio interesse per questo argomento ha due motivazioni principali. Io sono per molti aspetti «il frutto» dell’emigrazione che ha attraversato per decenni il Brasile. Una parte della mia famiglia viene dall’Italia, un’altra dal Portogallo, ma poi, i miei genitori si sono spostati a loro volta dalle campagne a una piccola città di provincia e io, più tardi, ho fatto lo stesso, scegliendo di lasciare quella cittadina per andare a vivere a San Paolo. Quindi, ho voluto raccontare la mia storia. L’altra considerazione che mi ha guidato riguarda proprio il fatto che la letteratura brasiliana non parla abitualmente di questo tema e credo che questo avvenga per un motivo preciso. In genere, i romanzi si basano, in un modo o nell’altro, su qualcosa che ha a che fare con la vita di chi li scrive e buona parte degli scrittori brasiliani viene dai ceti medio alti della società che non hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’emigrazione. La borghesia è nata nelle città, mentre ad emigrare sono stati i braccianti, gli ex contadini che si sono spostati per cercare lavoro nelle fabbriche. Ciò che la mia famiglia ha vissuto sulla propria pelle.

Cosa narrano del Brasile queste storie di emigranti dalle regioni dell’interno alle grandi città?

Penso che il tema che attraversa un po’ tutti i miei libri possa essere riassunto da un verso di una canzone di Caetano Veloso che dice: «Qui tutto ciò che è ancora in costruzione, è già rovina». Le storie che cerco di raccontare rappresentano per molti versi il lato in ombra della memoria nazionale. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in Brasile iniziò un processo di industrializzazione particolarmente brutale che cambiò completamente il volto del paese. Basta dare un’occhiata ai numeri per rendersene conto. All’epoca, l’80% della popolazione viveva nelle campagne e aveva a disposizione spazi molto ampi. Cinquant’anni dopo, il 70% dei brasiliani vive in grandi città, spesso in vere e proprie megalopoli, dove la densità degli abitanti è tra le più alte al mondo e al limite della sopportabilità. E una delle cose che mi stavano più a cuore, quando ho cominciato a scrivere, era proprio cercare di capire in quale modo questi cambiamenti strutturali avessero influito sulla vita quotidiana degli individui, come hanno contribuito a formare il carattere dei brasiliani.

Nelle lettere di Célio, l’emigrazione verso la fabbrica assume il profilo di un processo di «national building», dove elementi personali si mescolano con il formarsi di una storia collettiva. Una fase decisiva per il paese?

Direi proprio di sì. Dopo essermi occupato in precedenza del primo sviluppo industriale brasiliano, in questo libro ho cercato di fotografare il momento in cui il Brasile ha cominciato a trasformarsi per molti aspetti nel paese che conosciamo oggi. Gli anni Settanta, l’epoca in cui è ambientato il romanzo, rappresentano infatti la fase di consolidamento sia dell’industria che delle strutture statali, con il paradosso che è all’ombra della dittatura militare (che ha retto il paese dal 1965 all’inizio degli anni Ottanta), quindi in assenza di democrazia, che viene evocata l’idea del boom economico nazionale e di un possibile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. D’altro canto, il romanzo si chiude nel 1978 che è l’anno della fondazione del Partido dos Trabalhadores, il Pt di Lula, e dei grandi scioperi nell’industria automobilistica di San Paolo: l’inizio della fine della dittatura e l’avvio del processo che porterà alla democratizzazione del paese. Un momento di transizione, a mio modo di vedere decisivo anche per quanto è avvenuto dopo.

E «il dopo», la lunga egemonia progressista del Pt, è oggetto proprio in questi giorni di un bilancio molto critico da parte di chi contesta il fatto che per i Mondiali si sia speso più che per i bisogni della popolazione. Che cosa non ha funzionato nel «modello Lula»?

Le sacrosante proteste di questi giorni segnalano un problema vero. Personalmente ho sempre votato per il Pt ma non ho paura di esprimere delle critiche anche molto forti per come vanno le cose oggi, come ho fatto anche in occasione dell’ultima Fiera del libro di Francoforte, dove ho pronunciato il discorso di inaugurazione il Brasile era l’ospite d’onore, suscitando parecchie polemiche nel mio paese. Il fatto che nell’ultimo decennio ci sia stato un evidente miglioramento, specie per quanto riguarda le condizioni di vita dei ceti più deboli, non significa che non ci sia più niente da cambiare. Per molti aspetti, stiamo ancora imparando a gestire in modo diffuso la democrazia e dobbiamo fare ancora molto sul piano sociale. Abbiamo un assoluto bisogno di riforme nel campo dell’istruzione, della sanità, della giustizia, che ancora non funziona allo stesso modo per i ricchi e per i poveri. Per questo, passato il momento dell’euforia per Lula, si è aperto quello dell’indignazione. Perché, è vero, è stata ridotta la povertà, ma non siamo ancora riusciti a fare dei brasiliani, di tutti i brasiliani, che nel frattempo si sono trasformati in consumatori, anche dei cittadini a parte intera, con pieni diritti e possibilità.

Al centro delle sue opere c’è sempre, in un modo o nell’altro, la metropoli di San Paolo. Cosa rappresenta per lei e per l’identità brasiliana?

Nell’immaginario brasiliano, questa città racchiude il passato e il futuro, il meglio e il peggio del paese: le chance di successo e l’emarginazione più estrema. Un luogo in cui ci sono molte opportunità, ma non sono per tutti: la capitale economica del Brasile e la capitale finanziaria dell’intera America Latina, ma anche il posto in cui sorgono le più grandi e popolate favelas del paese. Inoltre è una città di immigrati: la maggior parte degli abitanti di San Paolo o non è nata lì, oppure non ci sono nati i loro genitori. Incarna il sogno di un miglioramento definitivo delle proprie condizioni di vita, ma, allo stesso tempo, è il luogo che rappresenta la rottura, altrettanto definitiva e irreversibile, rispetto alle proprie origini, a dove molti sono nati e cresciuti. Si va a San Paolo, si trova un buon lavoro, ma non si torna più indietro. Ogni brasiliano ci è voluto andare almeno una volta nella vita e ognuno di noi ha almeno un parente che ci vive. Per me San Paolo è questo: un microcosmo che racchiude in sé tutti i volti del Brasile, quelli che amo di più e quelli che mi spaventano da morire.