È possibile fare poesia e critica radicale nell’epoca dei social e del disastro psico-ambientale? Certamente sì rispondono Franco Berardi Bifo e Lorenza Pignatti nel libro Adbusters. Ironia e distopia dell’attivismo visuale recentemente pubblicato da Meltemi (pp. 164, euro 14), in cui ripercorrono la storia della rivista canadese fondata da Kalle Lasn nel 1989. La data non è casuale dato che, come dimostra anche la preziosa selezione di articoli e immagini che completano il libro, è proprio dopo la caduta del muro di Berlino che la controrivoluzione neoliberista iniziata alla fine degli Settanta accelera ulteriormente il suo processo di colonizzazione della dimensione cognitiva, emotiva e affettiva dei singoli soggetti, oltre che dell’ambiente umano e naturale.

Se da un lato questa vera e propria antropomorfosi del capitale, come l’avrebbe chiamata Giorgio Cesarano, ha portato alla progressiva esplosione della sfera pubblica – trasformata in una hobbesiana guerra di tutti contro tutti come risultato di quella del capitale contro l’umanità –, dall’altro ha portato a un collasso e a una frammentazione della catena significante che ha prodotto la proliferazione di vissuti catturati nella rete della depressione paranoica e schizofrenica. Ovvero a quella che, con le parole di Ernesto De Martino, uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento, potremmo chiamare una crisi collettiva della presenza nella quale al bipolarismo dei flussi finanziari corrisponde quello di coscienze che rischiano di rimanere senza respiro.

MA IN QUESTA DIMENSIONE in cui la logica spazio-temporale moderna si è ridotta a una successione di microporzioni digitali scollegate le une dalle altre, come si può fare critica del presente? Bifo e Pignatti sanno bene che un’intera tradizione del pensiero critico-dialettico è un’arma ormai impotente e guardano giustamente alle possibilità che si aprono a una critica visiva che fa del mito e del rito – e davvero qui si coglie tutta la potenza futura del laboratorio De Martino al di là di tante letture riduzionisitche che ne sono state fatte in Italia – la propria cornice di comprensione. Ecco perché Adbusters si può considerare una vera e propria opera d’arte e l’indicatore di cosa possa essere oggi una pratica artistica collettiva. La capacità di sovvertire la comunicazione pubblicitaria – il nome della rivista nasce dall’unione delle parole advertising e busting – coincide con la decostruzione della miseria esistenziale della società capitalistica.

Per questo il culture jamming di Adbusters «non è critica del linguaggio pubblicitario, ma critica del cinismo del sistema capitalistico che si appropria dell’ironia per nascondere la violenza e lo sfruttamento, l’immiserimento della vita del genere umano». In questo senso il collettivo canadese, ispirato dal pensiero di McLuhan e Bateson, si fa erede di una lunga tradizione che dal Futurismo russo a Dada, dall’l’Internazionale Situazionista alle pratiche sovversive del movimento italiano del ’77, ha fatto dell’ironia e del détournement visivo, un’arma di sovversione della percezione diffusa e di risignificazione dell’esistente.

ED È PROPRIO QUI, nella capacità di collocarsi all’altezza del flusso della comunicazione, che oggi cresce la possibilità di resistere al collasso estetico-cognitivo e sperimentare contemporaneamente uno scarto laterale che ci restituisca un po’ di quel possibile evocato da Deleuze, sempre più indispensabile per tornare a respirare.
Ecco allora che Adbusters supera di gran lunga molte pratiche politiche ormai svuotate di senso e invita a ripensarle a partire dall’immaginario, dalle percezioni, dagli affetti e dai desideri, terreni di conflitto per costruire un’ecologia della mente che si faccia terapia sociale ed estetica, e quindi politica.